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[...] A proposito di tutti i racconti il curatore Bufano insiste sull’imitazione dei racconti fantastici e dl “Gordon Pym” di Poe, citando vari elementi e vari passi (e avrebbe dovuto citare pure i “corvi” dl finale dl 2° racconto); ma in qsto 1° racconto a me sembra evidente, x temi, stile e voce narrativa, pure la lezione di Melville, oltre che dlo Stevenson citato da Bufano, e di Conrad. Nel 2° racconto il giocattolo rischia di romxsi, ma è ancora godibile; alcuni passi sono troppo scorciati e si fa 1 po’ troppo affidamento sull’aura cinquecentesca e guerresca che toponimi e espressioni arcaiche dovrebbero appunto essere in grado di creare. In realtà il racconto è formalmente non finito; ha xò 1 sua certa compiutezza, 1 struttura ad anello, come nel 1° racconto: x cui dopo la conclusione il lettore corre a rileggersi l’incipit (anzi, 1 tempo verbale) e capisce tutto meglio. Curioso come l’attentissimo Bufano non noti l’errore cronologico iniziale, qui: il xsonaggio si dice nato nel “149…” e racconta la xdita di entrambi i genitori, subita all’età di “16 anni”, nell’“anno del Giubileo”: cioè nel 1500 o nel 1525! Inoltre in 1 paio di passi il manoscritto – o questa edizione Einaudi? – manca di qualcosa e i xiodi risultano zoppicanti; né Bufano dà conto dl’espressione “fare i rigadi” (pp. 60-61), su cui ruota 1 intero passo sarcastico e che è forse di uso piemontese; né una traduzione né una segnalazione meritano alcuni avverbi (o forme verbali) in lingua inglese, lasciati qua e là in questi testi come poi spesso nel “Partigiano Johnny”, e che dimostrano come F. talvolta "pensasse" in inglese. Il 3° racconto, bel divertissement ma dal testo lacunoso e incompleto, sembra 1 parodia dle stesse “ballate” romanticheggianti che hanno dato la fama al protagonista e che sono il motore dl’azione: ecco xché le lunghissime descrizioni o l’indugiare dl’azione, alla “Evgenij Onegin”. Il motivo invece dl'invito all’inaccessibile castello e dgli ostacoli che lo ritardano e sembrano impedirlo è preso dal "Castello" di Kafka.
Quattro racconti inediti, non tanto “fantastici” quanto “storici” e dallo stile così mimetico da indurre qualche curatore del fondo Fenoglio a crederli traduzioni da autori anglosassoni (si presume) tardo-ottocenteschi! I racconti servono a capire come, tutt’altro che semplicemente il narratore efficace, antiretorico ma un po’ naif della Resistenza, Fenoglio fosse scrittore “letteratissimo”: anzitutto nel far propri, oltre che i temi, anche lo stile e la visione del mondo di autori del passato particolarmente amati, oppure il linguaggio e la mentalità tipici di un’epoca (talvolta parodiandoli, come secondo me nel terzo racconto e più scopertamente ed efficacemente nell’ultimo). Ma direi che soprattutto questi racconti – e la loro analisi filologica – dimostrano che Fenoglio sapeva creare, o almeno aveva programmaticamente e costantemente quest’intento, perfetti oggetti di artigianato letterario: che egli metteva insieme, limava e levigava pazientemente parole come fa con la sua materia prima un vasaio o un orefice; che dava a personaggi e storie una vita fittizia ma che sapeva di reale, scegliendo termini ed espressioni già da soli in grado (quasi) di dare l’idea di un’epoca, di un ambiente storico anche molto lontano. Con la capacità insomma che è solo dei grandi di far balenare per un attimo tutto un mondo dietro un termine marinaresco o semplicemente desueto buttato lì con (studiatissima) naturalezza. E’ “l’illusione della realtà” di Genette; che però lo studioso francese e altri strutturalisti vedevano crearsi, se non vado errato, grazie alla citazione di luoghi, personaggi, oggetti e all’uso di particolari punti di vista, ma che forse in realtà, almeno in romanzi e racconti storici “autodiegetici”, deve moltissimo appunto al lessico. Tutto ciò soprattutto nel primo racconto, bellissimo, l’unico davvero concluso, che dà il titolo all’intero libro e che meriterebbe da solo l’acquisto del volume. [Continua...]
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