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Mi piace pensare che questo sia un libro autobiografico. Forse devo pensarlo per non sentirmi solo in questo mare in cui naufragare non m’è dolce. La metafora non è casuale, poiché, dal titolo fino alla penultima pagina dove emerge per l’ultima volta la balena, misteriosa madre marina, il romanzo delle vite del dottore Salvacuori e della malinconica Màlinka è scritto sul mare agitato delle emozioni, abbastanza lontano dalla solita palude degli strizzacervelli, quando ruminano i loro stessi pensieri chiedendosi in mille modi la stessa cosa, solo per non sentirsi troppo emozionati. Diario di bordo è la narrazione di un caso, ma non solo clinico (relativo al disturbo alimentare di una giovane donna croata); più complessivamente, è relazione di una rete di relazioni: terapeuta e paziente, terapeuta e supervisore, terapeuta e famiglia del paziente, paziente e famiglia, supervisore e paziente, terapeuta ed amica… Tanto che dobbiamo le parole che leggiamo alla tra-scrizione degli appunti di Salvacuori da parte dell’anziano analista suo supervisore, arrivato sulla soglia dei settant’anni sano e salvo, senza lividi né graffi, senza buone scuse da portare, e pronto ad onorare quei debiti lasciati per la strada. Egli è il narratore, ma è anche e soprattutto colui cui si deve (nella finzione) l’eccezione alla regola che diventerà la chiave di volta della terapia di Màlinka e, quindi, la fine del viaggio (o l’inizio di un altro…). Per il medico vi è dunque una coincidenza di motivi etici e tecnici, i quali gli vietano di concedere il suo amore all’ammalata. Egli deve sempre tener presente la sua meta: che è quella di far sì che la donna, inibita in forza di fissazioni infantili nelle sue capacità amorose, giunga a disporre liberamente di questa funzione per lei inestimabilmente importante: non però perché essa la sprechi durante la cura, ma perché la serbi per la vita reale, quando, concluso il trattamento, le esigenze della vita si faranno sentire… Quanto dure sembrano le parole di Freud (Osservazioni sull’amore di traslazio
Recensioni
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«L'inverno era ormai finito quando il dottore si decise a parlarmi, per la prima volta, di Màlinka. Da molto tempo ormai seguivo in supervisione le sue terapie, e avevo stima di quel collega, più giovane di me di quasi vent'anni (...) Lui desiderava soprattutto capire il suo modo di essere con i pazienti, ed era sempre disposto a mettersi in discussione. Così un giorno arrivò dicendomi che c'era una giovane paziente di origine slava che aveva in cura da un paio di mesi e che gli veniva spesso in mente anche fuori dalle sedute. Ricordo che gli chiesi subito, come scherzosa provocazione, se pensava di esserne innamorato. Ricordo bene anche il suo sguardo e le parole di risposta: "No, se per innamoramento intende una qualche attrazione sessuale." "La mia era solo una battuta..." "Guardi che l'ho pensato anch'io, è stata la prima ipotesi (...) Lei mi suscita delle emozioni forti (...) Questa donna mi manda dei messaggi speciali, che stanno poco o nulla nelle parole. A volte mi confonde, altre mi fa sentire unico nel capirla." Dal primo resoconto che mi fece capii che aveva molto lavorato, anche inconsapevolmente, nel creare un clima e una base emotiva per fare il viaggio con lei. » La psicoterapia, come viaggio che coinvolge profondamente entrambi i partner della relazione terapeutica, è definita dall'autore «uno strano tipo di viaggio, un'impresa che non può non avere qualcosa di folle in sé stessa, ma che proprio per questo attira tante e forse troppe anime che si sentono naufraghe di qualcosa». La storia del «viaggio» di Màlinka e del suo dottore si legge come un romanzo, e nello stesso tempo permette di gettare uno sguardo su quanto accade nel vivo della relazione terapeutica.
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