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recensione di Piccinato, S., L'Indice 1991, n. 7
La casa editrice Marsilio ha recentemente inaugurato una bella collana, diretta da Alide Cagidemetrio, di "classici americani". I volumi, con testo a fronte, vogliono raccogliere (cito dal risvolto di copertina) "i classici anglo-americani, ma anche le voci di scrittori di etnie diverse, tutti a pari titolo esemplari testimoni della parabola del moderno tra 'ostinata ricerca della felicità' e inquietante contemplazione di ambigui destini". Ma non è solo questa la proposta: i testi, puntualmente annotati e commentati, vogliono anche essere materia di studio e confronto di una civiltà e di una lingua. Le traduzioni, tutte di buona qualità, aiutano ad entrare nel laboratorio dell'artista, a interpretare scelte linguistiche significanti, e a porgere nel contempo uno strumento di riflessione sulle problematiche dell'interpretazione. Uno strumento che, con le note, appunto, l'introduzione e l'apparato biobibliografico, si offre infine come valido sussidio didattico ad alto livello.
"La sposa della giovinezza" - il secondo volume della collana, preceduto dalle poco frequentate ma seminali "Leggende del palazzo del governatore" di Hawthorne e dal più famoso "Carteggio Aspern* jamesiano - presenta tre racconti scelti dall'omonima raccolta del 1899 di Charles W. Chesnutt (1858-1932), del quale nulla era stato finora pubblicato in Italia. La fortuna di questo scrittore, "fondante e atipico, classico e provocatorio, della tradizione letteraria nera" (come lo definisce Portelli nell'introduzione), è stata del resto incerta anche in patria. Primo autore afroamericano ad essere riconosciuto dalla cultura dominante (bianca) - l'autorevole critico William D. Howells accosta i suoi racconti a quelli di Maupassant, di Turgenev e di Henry James -, Chesnutt vide scemare l'interesse del pubblico per la sua opera, tanto da ridursi al silenzio dopo il 1905; n‚ le successive generazioni di intellettuali afroamericani gli destinarono la dovuta attenzione, leggendo il più spesso nei suoi romanzi e racconti atteggiamenti di sottomessa richiesta di riconoscimento di umanità ed eguaglianza del nero o di condiscendente visione dell'afroamericano secondo stereotipi rigidi e radicati. È solo a partire dagli anni settanta che torna negli Stati Uniti ad essere dedicata la giusta attenzione alla sua opera.
Si tratta di uno scrittore agguerrito ed abile, sostenuto nella scrittura da un vena ironica dissimulata e allusiva: la costruzione degli intrecci, sorretta da una tecnica sapiente, come in questi racconti, è tutta volta a far emergere dalle pieghe dell'enunciato - al di sotto delle apparenti concessioni a un immaginario "tipizzato" - la concretezza di una realtà di discriminazione, i conflitti e le esasperazioni di quella che comunemente è definita la linea del colore. E questo traspare non solo dal gioco del punto di vista - l'alternanza di quello dell'implicito destinatario bianco nei panni di un distaccato narratore e quello del personaggio "di colore" -, ma soprattutto dalla sottile ironia con la quale, a livello della scrittura, viene confutato il pregiudizio che presiede alla connotazione del carattere del nero sottomesso, del mulatto con la duplicità drammatica della sua doppia appartenenza, del nero emancipato, ma pur sempre inferiore.
Attraverso il linguaggio, insomma, si ribaltano lo stereotipo e la convenzionale concezione "cavalleresca" di un sud bonario e idealizzato mentre si attua il controllo dello scrittore sulla materia, del nero sul bianco. Convinto della capacità dell'afroamericano di elevarsi al livello delle classi colte - Chesnutt opera negli anni fervidi del dibattito fra i due grandi leader neri Booker T. Washington e W.E.B. DuBois -, lo scrittore rivoluzionariamente sostituisce il concetto di classe a quello di razza, realizzando così una galleria di personaggi a tutto tondo che, sullo sfondo cruciale dello sconvolgimento prodotto dalla guerra civile e dall'emancipazione, mettono in discussione il problema dell'identità del nero, della sua funzione nei rapporti all'interno della società, del dibattito morale di cui è oggetto e al tempo stesso suscitatore.
Ed è così che mr Ryder, di pelle quasi bianca, innalzatosi a uno status economico e culturale che gli permette di essere fra gli esponenti della Blue Veins Society - la società cui possono accedere solo coloro che si distinguono per le "buone maniere" e la trasparenza della pelle che lascia intravedere le vene azzurre dei polsi -, sceglie alla fine di riconoscere come legittima sposa colei che aveva impalmato quand'era ancora schiavo (un matrimonio non sancito al momento della liberazione e perciò non valido), in un gesto che, all'apice della sua "carriera", lo riporta all'essenza della tradizione del suo popolo, del quale emblematicamente riassume il dialetto ("La sposa della giovinezza").
Ed è cosi che il giovane mulatto braccato dalla folla per un delitto non commesso, confessatosi figlio spurio dello sceriffo creando in quest'ultimo un profondo dibattito morale ("I figli dello sceriffo"), finisce per lasciarsi morire dissanguato, vittima della violenza che è alla radice, "after the war" (dopo la guerra civile), del tragico cammino di liberazione del nero. (E dove il problema del mulatto, simbolo del dualismo insito nell'anima dell'afroamericano preso fra due culture nell'opposizione bianco/nero, istinto/"coscienza" ma per convenzione visto come erede dei lati più oscuri e negativi di ciascuna, assurge a un livello drammatico tra i più significativi della letteratura americana).
Ed è così, infine, che, in un abile gioco di sottile ironia, lo schiavo che il giovane padrone, nell'aspirazione di compiere un gesto "eroico", presceglie per offrirgli un'occasione di fuga, fuggirà sì, ma dopo avere, insospettato e inesorabilmente fedele, scelto il momento e l'occasione migliori ed a lui più propizi, dimostrando in tal modo la forza del "controllo" dal nero esercitato sul bianco ("La scomparsa di Grandison*).
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