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Clarel è senz’altro la meno conosciuta fra le grandi imprese di Melville. Ma si sa che la sua opera non delude mai ed è piena di rivelazioni anche negli angoli più riposti. Certo, però, il poema non si presentava di facile accesso: un epos gnostico, diciottomila versi suddivisi in centocinquanta canti, irti di allusioni e significati occulti. Occorreva un maestro dell’esegesi melvilliana, nella persona di Elémire Zolla («fra i grandi mi tiene inesorabilmente avvinto Herman Melville»), per avere l’ardire di avvicinarsi a questo scosceso massiccio poetico, traducendone quelle parti che fanno «trasalire alla lettura» per la loro «virtù profetica». Una virtù che si spinge fino a evocare scenari della nostra storia recente, dove comunismo, Chiesa di Roma e liberalismo si contrappongono, mentre ben chiara agli occhi di Melville, in tutto il poema, è la visione della futura società di massa. Così questa complicata storia di un pellegrinaggio in Terra Santa diventa anticipazione visionaria, densa di temi esoterici. Tale «facoltà di veggenza Melville l’aveva acquistata ad un prezzo glorioso: rinunciando del tutto a parteggiare, ad agire. Egli non porge insegnamenti, precetti sociali o politici, ma spicca il suo volo di civetta dopo la giornata operosa e ingannevole, dopo la fantasmagoria degli atti cui si è piegati dalla forza dell’illusione o dal ricatto della dura necessità. Egli parla ai nostri attimi di pace, di indifferenza, di sovranità; lascia che risuonino tutte le voci, e le estreme di preferenza, quelle che negano ogni senso (mondano) alla vita; permette a ogni germe di crescere e di offrire alla mente il suo frutto: nulla reprime. È un eroe gnostico» (Zolla).
Clarel, pubblicato privatamente nel 1876, apparve in edizione inglese nel 1924.
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