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A parte l'indiscussa bravura di mettere a nudo la sua anima, in questo libro di Busi non vedo una trama; non c'è continuità, insomma l'Aldo faccia trattati di psicologia lasci perdere i romanzi!
E' un capolavoro assoluto, duro e tagliente come l'ossidiana, scritto in modo meraviglioso, con intelligenza e dolore, con l'ironia e la forza del più grande scrittore italiano vivente.
MENTRE LEGGEVO HO PENSATO DI SCRIVERE AD ALDO BUSI PER INVITARLO AD UN TENERO ABBRACCIO, MI FACEVA TE NEREZZA QUELL'UOMO COSI' SOLO. SOLO ALLA FINE HO CAPITO CHE LUI SCRIVEVA E IN MODO DIREI SUBLIME.
Recensioni
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recensioni di Siti, W. L'Indice del 2000, n. 06
L'ultimo romanzo di Aldo Busi è utile a chiarire che differenza ci sia tra l'autobiografia come fine e l'autobiografia come mezzo. La prima è il racconto che uno fa delle proprie vicende, nella convinzione che siano esemplari e/o istruttive, e ha come obiettivo (che può essere o no letterario) quello di illustrare (o di far riflettere su) la vita dell'autore stesso; la seconda è un artificio esclusivamente letterario e viene usata dall'autore come pretesto - l'io, in quel caso, non è che uno strumento particolarmente sensibile che serve minare gli stereotipi della realtà, ripartendo da quel che si conosce meglio: è insomma l'equivalente romanzesco del cogito cartesiano. La prima esalta l'autore, la seconda lo sfrutta e lo distrugge.
Busi fa finta di rimpiangere l'autobiografia di primo tipo, l'Histoire de ma vie di Casanova, ma in realtà brucia di curiosità e di interesse per questo nostro tempo, in cui sembra che non esistano più "vite intere" capaci di essere raccontate senza esplodere. Sono molti anni che, con la scusa dell'autobiografia, Busi fa ricerca usando il romanzo; ma stavolta sottolinea il carattere di "pretesto" dando al se-stesso-che-scrive-di-sé un altro nome, Aldo Subi (con falsa etimologia da "subire"). Questo Aldo Subi, che dice "io", non è a stretto rigore il protagonista del libro, ma non è nemmeno, a stretto rigore, un semplice testimone (come lo è, mettiamo, Watson nei romanzi di Sherlock Holmes). I due protagonisti della storia sono il giudice Eros Torellino e il maestro elementare Amato Perche: Torellino è ossessionato dal bisogno di possedere tutte le donne di Perche - e riesce effettivamente a farsi la madre, la moglie, la sorella, l'amante e la figlia del maestro -, finché, in un'estrema resa dei conti, i due vengono trovati morti (e nudi) in uno chalet sul lago d'Iseo. Per essere un semplice testimone, Subi parla troppo di sé; ma più ancora, le vicende di Subi (per esempio la sua amicizia con un "plurindustriale" che poi gli mente e lo delude) assomigliano, per struttura psicologica profonda, a quelle dei due protagonisti. Insomma, la "storia esterna" di Torellino e di Perche illumina le radici inconsce ("l'avevo già vissuta tutta senza saperlo") della biografia di Subi - come dire che, nel processo di autosvuotamento, Aldo Busi è arrivato all'idea dell'autobiografia "delegata": "mi vengono bene solo i ricordi decisamente altrui, con quelli riesco a fare giustizia dei torti subiti".
La parte più decisamente autobiografica (con episodi bellissimi, come l'addio al fantasma del padre: "non è possibile andare avanti così, papà, io sono diventato troppo vecchio, ormai, sono più vecchio di te quando mi picchiavi") è talmente legata al cosiddetto "affresco sociale", la struttura è così necessaria e congegnata in un così commovente impulso conoscitivo, che fa a pezzi i discorsi di chi dice: Busi è bravissimo a raccontare, peccato che la sua infelicità lo renda tanto narcisista, perché non racconta e basta, risparmiandoci i suoi sproloqui? Il lettore a cui Subi si rivolge non è un lettore "elegante" e "raffinato", è un lettore tignoso che vuole soprattutto capire, il lettore da "tirar su" in futuro.
Però è vero che Subi parla troppo spesso ci si parla addosso quando non si hanno interlocutori. Ma la ragione è anche un'altra, ed è connessa a ciò che Subi scopre di sé scrivendo la propria "autobiografia per procura': "l'unico ruolo che ho io qui dentro è quello dell'Infangato e del Vendicatore". La motivazione narrativa per cui Subi si trova a dover fare da testimone è che i maschi eterosessuali non hanno il dono della parola: se lo scrittore non raccontasse per loro, loro non saprebbero mai raccontarsi. Ma, come risulta dal rapporto con il "plurindustrale", i maschi eterosessuali (che qui coincidono con i "borghesi riusciti") non parlano allo scrittore anche perché non lo considerano degno delle loro confidenze, e lo scrittore risponde con uno slancio d'amore-odio: "questo me lo rende oggi ancora più dolentemente odioso". L'antica "pena di essere socialmente inferiori sempre" si combina a una più inconfessabile inferiorità psicologica, a formare un corto circuito che era ben noto a Baudelaire: Signore, concedimi di non essere inferiore a coloro che disprezzo. Subi parla e parla anche perché non vuole ascoltarsi e preferisce esibire il dono della narrazione al posto dell'autoanalisi. È vero che, raccontando la storia di Torellino e Perche, capisce la complicità che lega la vittima al persecutore e l'ambiguità del servo contento di esserlo. Ma preferisce pensare a se stesso come a un uomo buono che non diventerà mai un persecutore; intuisce che, nell'inferno della reciprocità affettiva, si corre sempre il rischio di diventare il "padrone" o il "borghese riuscito" di qualcuno, e perciò respinge la reciprocità: "non apparterrò mai a nessuno, ma non odierò mai". L'unico affetto realmente reciproco è, al solito, quello che lo lega alla madre, e lei sola può permettersi di smontare le sue pose eroiche, come quando smitizza il suo desiderio di adottare una zingarella; per il resto, quanto all'amore "di passione e compassione" che Subi dice di cercare, beh quello lo porterebbe a "essere nel male sociale", a recitare il proprio ruolo, insomma a essere inevitabilmente inautentico. Preferisce evitare, innamorandosi di "un maschio vero", "un borghese di sogno", uno che "non era mai stato a letto con un uomo" - garantendosi quindi una fine rapida del rapporto e un ritorno, conclamato, alla castità. La castità, tra l'altro, è una caratteristica dell'eroe epico.
Altro che satira della borghesia lombarda post-industriale! C'è anche quello, naturalmente, ma compreso in un percorso ben più serio ed emotivamente impegnato. Senza paura per il proprio dolore, ma anzi usando il proprio dolore come un grimaldello. Di fronte a una società che si presenta nuova e ricca di mutazioni sorprendenti, Busi concepisce il romanzo come un "meccanismo testimoniale" che ricava dai particolari privati indicazioni sui fenomeni pubblici, sapendo che in indagini del genere è impossibile non essere personalmente coinvolti, fino ai nodi più oscuri e alle resistenze più profonde. Ogni romanziere importante, in Italia, deve reinventarsi una tradizione romanzesca: Busi si appoggia al Settecento inglese, a quel miscuglio di curiosità sfacciata, di aggressività economica, di empirismo razionalista e di audacia strutturale. Busi sta dalla parte del romanzo come conoscenza e rivendicazione, contro il romanzo come "arredamento"; ma mentre in molti lo auspichiamo, lui lo fa.
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