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Le esistenze descritte dalla Morazzoni sono fatte di relazioni pudiche, consuetudini dettate dalla banalità del quotidiano, frasi non dette, sentimenti taciuti. Tutto sembra avvenire attraverso linguaggi silenziosi, più sotterranei. C'è un'idea di facilità che affiora nei rapporti più scontati, quelli che si vivono per abitudine, un po’ trascinati dalle cose, dove contano la ritualità di certi gesti e certe capacità di dedizione. La comunicazione verbale è sopravvalutata. L'idea che scoprirsi con gli altri non sia assolutamente scontata, né normale, che approfondire un rapporto interpersonale sia comunque estremamente complicato, e molto spesso anche doloroso. Da qui la freddezza che percepiamo dalla lettura del racconto, il suo stile composto, preciso, senza slanci. E quell'ambiguo desiderio che lascia in noi lettori di aver voluto qualcosa di più da questa storia. O dalla vita.
Ho divorato questo libro. Mi è piaciuta la delicatezza delle minuscole riflessioni che costruiscono con poesia una passeggiata, la cura di una pianta o il semplice godersi la vista del lago. I personaggi mi sembrano veri, pur avendoli conosciuti solo da un gesto e dal tenore di una risposta. Sembra quasi che ci sia somiglianza tra il lago, i protagonisti del romanzo, la storia stessa e il ritmo quasi "ondoso" della narrazione. Lo consiglio vivamente
Recensioni
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recensione di Baggiani, A., L'Indice 1992, n. 8
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992 presso Longanesi)
Una grande casa di famiglia, "nera e imponente", la riva del lago, la Norvegia, l'aria plumbea e un po' sinistra del grande Nord: il viaggio che il signor Haakon D., quasi cinquantenne, compie ogni estate da Amburgo, attraverso Travemunde e Oslo, alla natia Bergen, sembra trasportarci in un mondo perduto, pieno di avvenimenti, di destini intrecciati, di cupe storie di famiglia. Ma la grande casa ospita solo la vecchia madre del protagonista che, abituata da diciassette anni alla solitudine, attende con distratta solerzia alle monotone abitudini del figlio, ricreando ogni estate intorno a lui l'intatta atmosfera del passato. Innamorata del suo giardino, la signora Agnes s'è assicurata la collaborazione della molto più giovane Felice, donna forte e serena. Nel rapporto tra madre e figlio Felice introduce, senza volerlo, la novità. Quanto basta per rivelare a poco a poco l'invisibile crepa apertasi in un tempo finora immobile. La complicità delle due donne, la vocazione ordinatrice che le accomuna nella cura del giardino, escludono Haakon, facendogli intravedere altre strade.
Irrequieto, insonne, egli ripercorre i luoghi di una passeggiata fatta da bambino col padre, dialogando mentalmente con Felice che cercherà poi invano di coinvolgere nella propria vita. E una piccola serie di azioni mancate riempirà ancora la sua vacanza, che si concluderà, infine, imprevedibilmente, con un pellegrinaggio alla chiesa di campagna dove i suoi genitori si erano sposati; e col ritorno in città. Di fatto, nulla è avvenuto: le scosse infinitesimali nell'abitudine ne hanno appena increspato la superficie; e il breve squarcio nel tempo si è tranquillamente richiuso.
Abilmente condotto sul filo del non-detto, di un'impermeabile ambiguità, il romanzo rivela una sua nascosta capacità di persuasione. Se le prime prove della scrittrice ("La ragazza col turbante", 1986; "L'invenzione della verità", 1988) rivelavano, dopo alcune incertezze iniziali, una non comune capacità di ricreare un'atmosfera a tratti blixeniana - e in uno dei suoi migliori racconti, "L'ordine della casa", un'attenta psicologia della crudeltà femminile -, qui si fa ancora un passo avanti. Sbozzate con leggerezza su uno sfondo lontano, privo nonostante tutto di connotazioni realistiche, le silhouette dei personaggi acquistano lentamente presenza, assecondate da un raccontare composto, preciso, senza slanci.
Le accompagna forse anche il rischio della monotonia, e di un certo manierismo che sfiora la profondità senza mai esserne veramente sfiorato. Ma mi sembra il rischio inevitabile di un gusto del raccontare che parte dalle grandi premesse del romanzo tradizionale per affondare nelle pieghe del non accadere e nella banalità del minimalismo quotidiano.
Sicché il piacere della lettura lascia scoperta, alla fine, una lieve punta di delusione: come se restasse, al di sotto delle parole, soltanto l'esilità della filigrana di partenza. Forse potevamo avere di più, ed è un peccato. Perché a favore del romanzo gioca anche un alto indice di traducibilità: l'attenta dimensione del racconto, un'atmosfera fuori del tempo ma insieme un'aura squisitamente europea, una certa finezza di connotazioni psicologiche innestata nell'abile gioco dell'ambiguità, il sorvegliato piacere di un linguaggio ben calibrato ma esente da ogni tentazione di sperimentalismo o di innovazione, adatto a pubblici diversi. Un prodotto, insomma, che sembra fatto apposta per un mercato internazionale. Potevamo avere di più?
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