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Lo narrazione è abbastanza lenta, nonostante le poche pagine, tuttavia il romanzo rimane una piccola perla grazie alle doti narrative dell’autore che cominciavano a mostrarsi proprio in quegli anni. Anche in questo ritroviamo le note nostalgiche che a detta dei più – io per il momento non ho letto abbastanza romanzi dell’autore per confermarlo – sembrano essere una prerogativa dello stile di Pavese.
“Il carcere” di Cesare Pavese, piccolo romanzo in cui attraverso la figura di Stefano, ingegnere confinato in un piccolo paese sul mare, l’autore descriverà il proprio confino – avvenuto tra il ’35 e il ’36 a causa di alcune lettere – e la sensazione di essere rinchiuso in un carcere di cui proprio il mare è la quarta parete. Stefano è costantemente ossessionato dalla paura che da un giorno all’altro, senza preavviso, la polizia potrebbe portargli l’ordine di lasciare il paese, forse per riportarlo al carcere vero e proprio; proprio per questo non vorrà mai disfare la valigia – sarà in seguito una donna a farlo, con il quale nascerà poi il diverbio – perché lo trova essenzialmente inutile. Romanzo breve ma intenso.
Il titolo del libro può apparire ambiguo, la vicenda non riguarda un carcere ( nel senso di prigione), riguarda un confinamento, più specificamente è la vicenda personale di Pavese, confinato a Brancaleone. In realtà il titolo descrive perfettamente il romanzo. Il carcere è lo stato d'animo del protagonista, Stefano, catapultato in un'ambiente che non gli appartiene, con usi e costumi che non riesce a comprendere. Pur non essendo in carcere ( gli abitanti del posto gli ricordano sovente che il confino non è molto diverso da una villeggiatura), il protagonista è prigioniero del posto e della sua solitudine. La sua vicenda si intreccia con quella di due donne: la servetta Concia, di una bellezza che solo Stefano riesce a vedere; ed Elena, la figlia della padrona di casa con cui ha una relazione. Nonostante questa relazione, Stefano rimane solo, vorrebbe da Elena solo il corpo, mentre Elena vorrebbe dargli il corpo solo se "le vuole bene". Questo romanzo oltre a raccontare sapientemente i senti enti propri dello stesso Pavese, offre uno spaccato dell'Italia meridionale di inizio- metà novecento. Leggendolo ho pensato a libri come Libera nos a Malo o Cristo si è fermato ad Eboli. Anche qui si parla di un sud dove il tempo pare essersi fermato o non essere proprio partito, con usi incomprensibili per i forestieri. Un vero e proprio carcere intellettuale.
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