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Il ritratto dell’umanità che Ionesco ci offre non si presenta, se non in minima parte, come pittura e critica di costume, come ricostruzione grottesca e paradossale di caratteri e di situazioni. La sostanza è molto più impegnativa e tormentosa, di una natura che tende in qualche modo all’assoluto: la ricerca del senso e del perché della vita. Un tentativo, implicito o esplicito, che si rinnova in tutte le opere e che regolarmente fallisce, poiché nell’autore non c’è risposta. Ma è un’ansia genuina, per quanto sapientemente controllata, che costituisce la forza, o forse il presupposto della forza drammatica e poetica di questo teatro, il quale certamente per questa via, favorito dal tramite della forma comica, ha stabilito il suo tenace e fecondo contatto con il pubblico.
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Opera prima di uno dei grandi maestri del teatro dell'assurdo. Una commedia esilarante, surreale, bizzarra e deliziosamente sopra le righe, un delirio tutto borghese di frasi fatte, il trionfo della banalità, del vuoto intellettuale e spirituale. La figura del capo dei pompieri e della domestica, esaltano l'insensatezza di quel tipo di esistenza dell'apparenza, un baratro in primis linguistico, nella sua forma come nel suo contenuto, che culmina in un finale serrato da scappati dal manicomio.
Un'esperienza non comune l'incontro con Ionesco. Da leggere e da vedere, dal vivo o in tv.
Le matasse in cui annega il dire, il conversare, i folli fraseggi di una bella borghesia che non può dirsi d'essere alle corde perché non lo capirebbe mai, compiaciuta e persa com'è nel proprio ozio squinternato. Un nonsenso a dominare la scena, a sparigliare i ruoli nel grande caos con cui il linguaggio consola e confonde, come a ritrarre da una parte delle anime coscienti della loro infelicità ormai in balia di un qualche loro gustoso altrove e dall'altra annientare con ghirigori e scioglilingua, con ossessive ripetizioni e cerimonie ai limiti della marionetta ogni sillaba che che li tiene in vita e che li offre alla scena. Corpi come eleganti automi inconoscibili, orologi attorno a mentire su una coerente idea di tempo, e un frasario che scroscia negli istanti come una ruota priva di bulloni e di tragitto. Due vite accanto alle due coppie protagoniste solcheranno gli incontri, come a tentare di ravvivare con un lieve barbaglio realistico: la domestica, vaga incarnazione di quel coro che nella tragedia sorvegliava mosse e sentimenti e ne traeva una morale, e un pompiere, ben strutturato anch'egli in apparenza con le storie del suo lavoro. Ma cadranno anch'essi negli squisiti rottami in cui annaspano gli altri quattro, lungaggini inutili a seminare ludiche coincidenze o flebili accenni di polemica, aneddoti privi di nesso o effimere favolette simili a voci di manichini impagliati, illusi di un'identità che è anche la nostra di spettatori, I dialoghi finali dove si celebra il fuoco come padrone delle cose, di una vita che sfuma e che tradisce sempre chiunque voglia azzardarne una sfida, è l'espediente che Ionesco adopera per parlarci di una chiarezza mai totale, mai chiara, ma come affidata a schegge d'attimo, a bruciature inevitabili. Ma poi, in definitiva, chi è, cos'è la cantatrice calva? Un campanello suonato da nessuno? La non ragione delle cose a cui bisogna rassegnarsi? L'ossimoro dentro cui lampeggiano esili lame sensate? Niente, o qualcosa. O Ionesco.
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