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Anno edizione: 2014
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Scrive Roland Barthes che Voltaire è "l'ultimo degli scrittori felici" perché "nessuno meglio di lui ha dato l'andamento di una festa alla lotta della Ragione". Al contrario, Jean Starobinski pensa che Voltaire ha scritto tutto quel che ha scritto per esorcizzare l'ansia del primo degli scrittori infelici. Molte sono le opinioni anche discordi di parecchio sulla natura della produzione testuale del solitario di Ferney. Da noi Francesco Orlando parla di uno scrittore immenso che nondimeno si è fatto veicolo di un "ritorno del regresso", mediato dall'ironia. Ma Voltaire era un uomo dei Lumi per eccellenza e noi preferiremmo parlare, come fa l'eccellente curatore, di "rivincita ludica del riso o del sorriso".
Fatto si è che con Candide (1759 e 1761) siamo ai vertici della scrittura volterriana, emblema di un certo numero di nodi e di snodi che culminano in quest'operetta di cento pagine. La linearità del racconto e la velocità del ritmo fanno tutt'uno con una certa semplificazione della problematica: ogni tema si riduce a un'antitesi tra nero e bianco (Auerbach); ma il fatto è che Voltaire con un dire sempre brillante e quasi miracolosamente sottratto all'usura del tempo elabora degli spazi inventivi che abbinano un appena abbozzato "vissuto" attuale e figure più astratte di esperienza, quasi surreali nella loro impossibile possibilità.
Il personaggio è quasi sempre una marionetta (si pensi alle comiche del cinema muto), l'intreccio è arbitrario, assurdo, quanto un mondo visto da un marziano (la lezione di Montesquieu e Swift), il tempo narrativo non equivale al tempo di un soggetto né a una durata descrittiva, l'accelerazione del ritmo non dissimula una certa staticità del racconto. L'azione passa attraverso forme oblique come l'ironia: allusioni, paradossi, antitesi, eufemismi, pseudocausalità, perifrasi, ellissi si dispiegano con profusione. L'arte retorica celebra i sui fasti. Scrive il curatore che "la guerra, gli autodafè, le epidemie, i terremoti, le ipocrisie dei gesuiti, la rapacità del mercante, la crudeltà dei potenti, gli inganni, le violenze, le ingiustizie, i pregiudizi sociali: tutto ciò non è meno terribilmente soverchiante nell'immagine della realtà che il racconto costruisce, e determina uno sconforto profondo che, dal travisamento ironico della scrittura, trae un risarcimento solo parziale".
Candido è soprattutto questo: una macchina retorica che mostra la violenza cieca della natura e la fragilità degli esseri umani. Se il sottotitolo del testo allude a un discorso o tema filosofico, non dimentichiamo che uno dei comprimari del racconto, sul finire della storia, narra del saggio turco che per conseguire calma e serenità aveva buttato via politica e filosofia. Autoironia volterriana? Non ci sarebbe nulla di strano in questo libro magico in cui si sostiene tutto e il contrario di tutto. Dove il precettore leibniziano Pangloss vede ordine, necessità, giustizia, Candido constata disordine, arbitrarietà, ingiustizia. Candido attraversa in lungo e in largo il mondo sino al mitico Eldorado senza che i personaggi via via incontrati gli possano fornire alcuna chiave possibile di interpretazione del mondo stesso, se non quella di una ripetuta conferma della disillusione universale.
Eppure in questo aureo libretto, in cui i personaggi si riducono a marionette, quanta attenzione al tema del corpo. Fa bene il curatore sottolineare la centralità del motivo corporeo nell'economia di una pantomima buffonesca e anche tragica: "Il corpo umano, in Candido, è onnipresente oggetto di torture, malattie, laceranti sollecitazioni meccaniche, dispiegato in una impressionante quanto iperbolica casistica della disarticolazione e della mutilazione". Questa figura del corpo martoriato bisogna veramente tenerla a mente, perché di lì a poco essa si farà "cosificazione" nell'opera del divino marchese (de Sade). Si capirebbe poco del Settecento francese se non si guardasse con il massimo interesse a questo motivo corporeo nell'articolazione che va da Saint-Simon a Sade. Così ci indica anche il bellissimo libro in tre volumi a cura di Alain Corbin e altri, Histoire du corps, in corso di ultimazione.
Ma è alle opere e ai giorni che ci richiama infine Voltaire: al lavoro, alla cura (Sorge) del nostro "giardino", sola attività che renda liberi e ben radicati, ben identificati. Il resto è soltanto noia o inganno. Il resto è silenzio, rotto già dai proclami narcisisti e paranoici di Jean-Jacques.
Giovanni Cacciavillani
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