La Strage di Piazza Fontana
La bomba del 12 dicembre 1969 ha cambiato l'Italia; o meglio l'ha picchiata come un pezzo di ferro rovente su un'incudine, umiliata. Per cinquant'anni, tutta la vasta cospirazione di potere che l'ha prodotta ha lavorato per lei, perchè restasse impunita e si moltiplicasse. - Enrico Deaglio
5' minuti | a cura di Redazione Libri IBS
Il 12 dicembre del 1969, alle ore 16.37, in una Milano pronta ad accogliere il Natale, a pochi passi dal Duomo, si consumò la strage di Piazza Fontana.
L’ordigno, deflagrato nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura, devastò oggetti, ma soprattutto persone: uomini, donne e bambini, lasciando un enorme buco metafora della situazione dell’Italia di quegli anni. Nelle settimane precedenti, il Paese viveva infatti l’autunno caldo del 1969: una cornice di proteste e manifestazioni sindacali aveva risvegliato anche gli studenti delle università. I funerali di Piazza Fontana costrinsero i milanesi a “salutare”, nel gelo decembrino, 17 vittime, senza dimenticare gli 88 feriti, tra cui un bambino, il cui sangue era ancora fresco sulle ferite.
La stampa e la televisione si fecero immediatamente portavoce dell’accaduto, a partire da un giovane Bruno Vespa che diede la notizia della cattura dei due presunti colpevoli. Giuseppe Pinelli, poi deceduto per un volo dalla finestra verificatosi durante un interrogatorio, e l’anarchico Pietro Valpreda, additato come responsabile per lungo tempo.
Ci furono conseguenze immediate e di lungo periodo: le indagini,coordinate da un giovane vicecommissario, Achille Serra, non troveranno un vero colpevole fino al 2005, data in cui i responsabili, i neofascisti di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura, saranno identificati da una sentenza di Cassazione, ma non processati a causa della loro precedente assoluzione definitiva del 1987.
Il processo chiaritore scollegò l’esplosione da tutta quella serie di attentati politici in capo alle Brigate Rosse, chiarendo, finalmente, le colpe della matrice ideologica eversiva di estrema destra.
Furono dieci i processi totali che scossero la giustizia italiana negli anni successivi al disastro: un viaggio burocratico, tra le scartoffie e i faldoni, che si mosse tra Milano, Catanzaro, Bari e Roma. Un arco di quasi vent’anni che porta alla luce una serie di depistaggi e attribuisce gravi responsabilità ai terroristi neri. La vicenda che ha investito i tribunali italiani è poi mutata in un processo simbolico allo Stato e al suo sistema giudiziario.
Nel cinquantesimo anniversario della strage di Milano, nella speranza che la memoria delle vittime funzioni da deterrente per il futuro, restano i frammenti di un’Italia spezzata. Rimangono le effigi mute degli innocenti e delle vittime dell’ossessa caccia alle streghe che ha puntato il dito contro anarchici e comunisti, accanto a esse restano impuniti gli esecutori e l’ambiente politico che, in qualche modo, ha legittimato e nascosto la verità. Resta la sconfitta di una fazione che avrebbe voluto instaurare un nuovo regime, ma che si è trovata a fare i conti con la forza della democrazia e che – in un’Europa in cui le bombe sono ancora state, purtroppo, protagoniste- non è riuscita a piegare la libertà.
Dal racconto serrato e documentatissimo di Benedetta Tobagi che ripercorre le indagini sulla strage a partire dal primo processo-labirinto in Piazza Fontana. Il processo impossibile al viaggio nella memoria, che ha le sembianze di un giallo, di Enrico Deaglio che innesca alcune analogie con il più grande depistaggio della storia italiana in La bomba. Cinquant'anni di Piazza Fontana .
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