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Un'ampia raccolta di racconti offre al lettore un "nuovo" libro di Anna Maria Ortese. L'antologia allestita da Luca Clerici affianca alla prima prova della scrittrice, Angelici dolori (edito nel 1937), dieci testi pubblicati in volume e una serie di racconti riposizionati in successione cronologica finora dispersi in varie sedi. Con l'esclusione di quanto pubblicato in L'infanta sepolta, In sonno e in veglia (riproposti da Adelphi) e in Il mare non bagna Napoli (a cui è riconosciuta dalla stessa autrice compiuta autonomia), il libro raduna la gran parte della narrativa breve della scrittrice, estendendosi su un arco temporale di quasi quarant'anni. Ne deriva una possibilità di lettura complessiva e almeno in parte diacronica dei testi, che integra il percorso consentito dai libri di Ortese, spesso costruiti complice il "bisogno" con lo slittamento di blocchi di racconti dall'una all'altra opera.
Gli attraversamenti, si sa, consentono due opzioni: rimarcare le differenze, misurando gli stacchi, oppure sottolineare le permanenze. Questa antologia ci sembra che permetta di percorrere soprattutto la seconda direzione. Individuati e messi a punto in Angelici dolori, dove, con le parole di Clerici, Ortese "narra le dinamiche di autodeterminazione da parte della protagonista-narratrice", i colori della sua tavolozza temi e strategie retoriche tendono a non mutare. In particolare, a imporsi è l'attenzione della scrittrice alla dimensione spaziale. La sua narrativa difficile da disgiungere dai "resoconti di viaggio" raccolti in La lente scura sembra insomma delineare una cartografia dell'anima. Si può quindi azzardare che i racconti non tanto "avvengono" nei luoghi, quanto piuttosto per i luoghi. In altri termini: è nel movimento attraverso la spazio che Ortese costruisce la sua immagine del mondo.
In che modi? In Ritorno tra la mia gente, per l'io narrante il viaggio verso sud è, contemporaneamente, commossa riconquista di un "paesaggio di una remota e profonda bellezza" e preoccupato confronto tra i volti e sentimenti del passato e quelli del presente. Viaggio a Roma descrive invece il ritorno nella città dove la scrittrice è nata ma non ha mai vissuto. Le immagini rudimentali con cui le si avvicina Romolo e Remo, Castel Sant'Angelo e il Pincio deflagrano sovrapponendosi alla "realtà". Così, mentre "tutta Roma sembrava cullarsi in una lucida, esitante, preziosa bolla di sapone", il rapido tour diventa opportunità per dare voce allo "spiritello fanciullo", ai suoi incantamenti e alle sue malinconiche consapevolezze. Al motivo del ritorno si affianca quello altrettanto insistente della partenza. In Di passaggio Emilio è costretto a lasciare Napoli, dove è giunto rientrando dalla Germania per fare visita alle zie. Cugina Grande si oppone alla decisione di Dolly che vorrebbe consentire al nipote di rimanere con loro. Fantasticherie è descrizione perlopiù autobiografica di luoghi abbandonati: il castello tra le montagne dove la narratrice viveva con i genitori; la "casetta tutta bianca di calce" che sorgeva dietro il "Quartiere del pane" nella "terra piatta"; la casa "all'inizio del deserto" dove con la famiglia andò ad abitare quando la costruzione non era finita; la casa "antica coi balconi" nella città "col mare blu e il porto pieno di petroliere rosse"; poi di nuovo, durante i bombardamenti, le montagne "dove eravamo stati bambini"; e infine l'"altra casa" in cui alloggiò a guerra finita.
La logica del movimento che è occasione di incontro con l'"altro", come in Viaggio d'inverno o in Quartiere mette in ombra la dimensione temporale, che si configura come elemento estraneo alla fabula, meno necessario alla costruzione del testo. Il passato che non potrà mai tornare, il futuro atteso e sognato, lo stesso presente compresso tra rimpianti e fantasie e destinato a scorrere senza posa costituiscono, in definitiva, soltanto la cornice alla narrazione. L'esito è il deserto di fatti, perché non alla trama, ma all'azione dello sguardo alla sua esplorazione dei paesaggi Ortese delega il compito di guidare i racconti. Ed è nello sguardo che si misura la sua estraneità, quella che in Il ritorno del giovane dio fa del protagonista "un moribondo che parla di un sano, un uomo vecchio di un giovane, una sera d'inverno di una pura mattina di primavera" e che in Aurora Guerrera si viene definendo come opposizione tra infante e adulto, tra "civile" e "bestiale" o, ancora, tra vita "in pienezza" e nelle privazioni. Per queste vie il soggetto dei racconti è letteralmente spaesato, senza orientamento. Trasognato e visionario, non può che (dolcemente) sovrapporre se stesso alle cose, annullandole. Fino al progetto estremo, la fuga verso il lontano, l'"isola", l'immobile. Che è poi il luogo dove risiede la scrittura, ovvero la stanza dove agisce la "fantasia perdutamente invaghita del bello".
Andrea Giardina
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