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Anno edizione: 2010
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In genere non amo i racconti, ma Mariolina Venezia ti accompagna in un microcosmo di folli, vinti, subumani normali con tale garbo da farti riconoscere in tutti i loro tic, le loro mostruosità, le loro maschere.
Leggendo questi brevissimi racconti hai la sensazione di sbirciare nel buco della serratura del vicino e di scoprire famiglie disfunzionali, paranoie sopite pronte ad esplodere, solitudini così normali da sorridere, avere paura e pensare con raccapriccio che siano le nostre. Alcuni racconti restano nella testa, alcune descrizioni appena tratteggiate richiamano alla mente le distopìe terribili di Black Mirror. Eppure sono tanto verosimili quanto spaventose. Specie perché sono racconti scritti e pubblicati tanti anni fa.
Bellissimo libro questo che l'Einaudi ripubblica dopo la prima uscita presso le edizioni Theoria. La Venezia si cimenta con la misura del racconto e dimostra tutta la sua abilità. I racconti hanno un colore noir e indagano nei meandri della nostra vita quotidiana. Il delitto non è più qualcosa di anormale ma si nasconde tra le pieghe della nostra vita normale, della nostra vita, anche banale, di tutti i giorni. Tutti i racconti hanno una struttura "secca", senza fronzoli e questo non è poco merito nel rendere i racconti di una lettura gradevolissima.
Recensioni
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Sospesa fra l'Italo Calvino degli Amori difficili e il Giulio Mozzi delle prime prove, Mariolina Venezia, al suo esordio in ristampa presso Einaudi con la raccolta di racconti Altri miracoli uscita nel '98 per Theoria, sembra davvero impegnata a estrarre, come recita il titolo di uno dei racconti, la "cosa essenziale".
Nel racconto in oggetto, una paziente operata di appendicite guarda il medico che la opera in un momento di latitanza anestetica e ne trae ispirazione amorosa improvvisa, così inizia, una volta guarita, una relazione. Ogni volta che l'uomo le fruga dentro la donna è felice, fino a quando un ennesimo amplesso non porta entrambi sul tavolo della sala operatoria: in quel momento il frugare dentro alla ricerca dell'essenziale giunge all'acme, e piacere e dolore si mescolano, come vita e morte.
Le protagoniste e i protagonisti, donne, uomini, vecchi e bambini, di Altri miracoli sembrano tutti impegnati a inseguire epifanie che non arrivano o che la contemporaneità stinge di neon: del resto è l'autrice stessa a dichiarare che questi racconti nascono per esplorare "la zona grigia delle piccole vigliaccherie private", come se la società degli anni novanta fosse "il laboratorio dove si preparava la crisi sociale alla quale stavamo assistendo con una certa impotenza".
Ma è facile capire che la cosa essenziale che Mariolina Venezia cerca, come ogni narratore, è l'epicentro della scrittura, a volte raggiunto, a volte no, in questa prima prova. C'è fame di vita, per usare un altro titolo della raccolta, Fame, per l'appunto, intesa in questo caso in senso alimentare e sessuale (lo stesso titolo di un racconto veramente magistrale di Paola Masino, ben più antico e raro a leggersi, dove si narra di un padre costretto a uccidere i suoi figli per non udirne i lamenti e poi incapace di mangiare di fronte a un piatto caldo), e la vita non riesce a rispondere a questa fame se non attraverso forzosi espedienti, come se il tessuto della contemporaneità sfuggisse al senso di continuo.
E la verità ultima, la verità delle persone, è nei frequenti elenchi finali di oggetti che chiudono i racconti: la parte residuale di noi, di questo tempo (fili interdentali, trousse, la quotidianità più ovvia) o nelle parole che esplodono a rivelare l'inconfessabile, come nell'assai riuscito Atto di dolore, dove si narra di una madre che assiste la figlia che si è data fuoco durante una manifestazione studentesca e ora è diventata disabile. L'insulto della madre echeggia liberatorio alla fine, come si vorrebbe udire (ma non accade: e così doveva essere) dal protagonista di quel capolavoro che è Pastorale americana di Philip Roth, anche lui padre di una figlia incontinente (in Venezia in senso letterale, in Roth in alto senso metaforico).
Allora, sia che i segni della nostra contemporaneità siano l'autolesionismo estremo di una ragazza (e qui la relazione con il Mozzi di Il male naturale diventa più stretta) che si trasforma in riconoscimento con i segni tribali del portantino dell'autoambulanza, sia che si concretizzi nella stanchezza di un padre che uccide o di due commesse rimaste prigioniere di uno sgabuzzino dopo un'esplosione e ritrovate strette per mano, è sempre di intrappolamenti che Mariolina Venezia racconta, cui invano i suoi personaggi cercano di fuggire.
Pure, in questa raccolta la cosa essenziale, ovvero il cuore irragionevole delle cose o la "piccola buona cosa" carveriana, è solo tangenzialmente sfiorato, come è naturale che sia in una prova d'esordio, ancora rapsodica e convulsa. Ciò non di meno resta un ritratto di ordinaria miracolosità, o di anti-miracoli, che il nostro tempo, invano in fuga dalla sacralità, propone: un ritratto orizzontale, come la stessa autrice sottolinea, di un mondo che si è appiattito in scelte meccaniche e occasionali, come se questo potesse liberarci dal male di vivere e dalla responsabilità personale. Sul filo che sostiene, come tanti uccelli, gli episodi del libro passa l'autrice come un funambolo un po' spaventato dalla troppa materia e dal fatto che, in ogni caso, la materia abbia inesorabilmente vinto sul mondo.
Antonella Cilento
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