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In due sole parole: magistralmente introspettivo.
Con parole delicate, ma anche dolorose incerte e anche interrotte ho trovato la storia di una vita. La scrittura è quella di una donna. Piena di emozioni, colori profondità profumi....e poi il giardino. Che nasce e cresce. Vive per lei e grazie a lei. E poi la malattia. Il dolore lascia il posto alla preoccupazione del futuro del giardino. Ma tutto trova un senso come la vita.
Profonda analisi dell'autrice dalla scoperta della malattia agli ultimi giorni. Il giardino è la sua anima, la sua eredità. È l'unico luogo dove l'autrice si sente libera e la vera cura al suo spirito. Un bellissimo cammino tra molteplici varietà di piante verso la speranza.
Recensioni
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Qual è il rapporto tra giardino e giardiniere, tra chi accudisce e chi viene accudito, se da un giorno all’altro può accadere di essere a propria volta da curare e accudire tanto da diventare come parte di quel giardino iniziale?
Pia Pera se lo è chiesto e ce lo ha raccontato con questo suo libro-diario, Al giardino ancora non l’ho detto, che prende il titolo dai versi di una bellissima poesia di Emily Dickinson, che dice «I have not told my garden yet».
«Cos’è cambiato nel mio rapporto col giardino? E’ cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire…».
Già dalle primissime battute, questo libro non solo commuove per l’intensità e la bellezza che si dipanano per tutto il racconto, ma prende per mano il lettore e lo porta con sé in questo percorso di malattia e liberazione, in questo giardino rigoglioso e bellissimo, dove si può solo contemplare l’immensa e misteriosa bellezza del creato e trovare la pace.
Un’autrice che è un’autentica scoperta, con il suo uso della lingua così bello, che ricorda le migliori poesie di Mariangela Gualtieri: si ritrova quella stessa carnalità nel dire la vita senza troppi giri di parole, quel raccontare se stessi come ognuno di noi vorrebbe imparare a fare.
Recensione di Stella N’Djoku
Il libro si apre su una poesia di Emily Dickinson, I haven’t told my garden yet, da cui è tratto lo splendido titolo. Il tema è il giardiniere e la morte, la scomparsa di chi ha ideato, pensato, accudito il giardino. Il suo venir meno come tradimento involontario, non colpevole, quando verrà il giorno in cui le sue cure non saranno più possibili e la natura tornerà ad essere l’unica forza in campo. Mentre un pittore, uno scultore, un architetto, un poeta creano qualcosa che può vivere anche senza di loro, il giardino è opera effimera, transeunte, eppure...
Quando Pia Pera riceve in eredità un podere in abbandono nella Lucchesia, alle pendici del Monte Pisano, decide di rimetterlo in sesto e di abitarlo in pianta stabile, insegue così, lei, cittadina cresciuta sui libri, una passione antica. Le viene in soccorso l’insegnamento del filosofo e botanico giapponese Masanobu Fukuoka, maestro dell’agricoltura della non-azione, sintetizzabile in quattro principi: non lavorare il terreno, non diserbare, non usare concimi, non usare pesticidi. Non sarà applicabile a regola d’arte, ma la filosofia di Fukuoka – non contrastare ma assecondare la natura – ispira la composizione e l’allestimento del suo giardino-orto: un giardino “spettinato” e “in movimento”, luogo della spensieratezza e di un certo disordine, delle erbacce e dei fiori spontanei, del selvatico e del possibile.
Al giardino ancora non l’ho detto comincia con un leggero zoppicare, un difetto da niente, in questo modo Pia Pera scopre di avere una malattia grave e incurabile, la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una malattia che si mangia pian piano la vita normale, rendendo i gesti quotidiani sempre più difficili. Cosa cambia allora nel suo rapporto con il giardino? Cambia tutto, ci dice Pia Pera. Eppure dopo il primo disorientamento, dopo la paura, sente una sorta di estrema serenità: “È cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi come vorrei”. Le cure riservate fino allora al giardino sono adesso destinate alla necessaria cura di sé, come se lei stessa fosse diventata il giardino. E mentre si rincorrono riflessioni sul fine vita, sulla libertà di scegliere, fatte con gli occhi asciutti di chi vuole fino in fondo rendere conto di sé con dignità, la trama del racconto si nutre di quotidianità antica e nuova. “Le piante fanno così, cedono senza combattere, si piegano senza dolore, pronte ad accogliere qualsiasi altra vita sia in serbo per loro.
Recensione di Benedetta Centovalli.
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