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ARGUEDAS, JOSé MAR¡A, Musica, danze e riti degli indios del Perù
ARGUEDAS, JOSé MAR¡A, La volpe di sopra e la volpe di sotto
recensione di Puccini, D., L'Indice 1991, n. 6
Dopo la ristampa recente (1988) di "Festa di sangue", la casa Einaudi, grazie alle cure di Antonio Melis, si direbbe che tenda a riproporre al lettore italiano tutte le opere di uno dei più affascinanti scrittori contemporanei dell'America ispanica: José Maria Arguedas, autore celebrato dei "Fiumi profondi", "Tutte le stirpi" e "Il Sexto". Ora tocca all'ultimo suo romanzo incompiuto, "La volpe di sopra e la volpe di sotto" (e già sono annunciate di lui le "Poesie"), che rassembla, in inquieta e vibrante alternanza, tre generi di materiali scelti: un diario in quattro fasi, nel quale lo scrittore riferisce, in agghiacciante progressione, la storia del proprio suicidio, che si realizza all'ultima riga del libro, in data 28 novembre 1969; il vago resoconto antropologico, tra mito e sessualità, del curioso titolo che allude tanto all'abitante della montagna (volpe di sopra) quanto a quello della costa (di sotto), della fratturata geografia umana del Perù, nonché all'organo femminile ("volpacchiotta"); e, infine, corpus centrale, il racconto frammentario e convulso dell'amara e travolgente vita di Chimbote, porto e città di recente nascita (almeno all'epoca del libro) e agglomerato di tutte le contraddizioni e dei selvaggi conflitti (tra modernità e arretratezza, tra sviluppo e sottosviluppo, ecc.) della società peruviana.
E qui, a proposito di questa parte del libro, la più discussa da tutti i critici, mi sono ricordato d'un episodio di qualche anno fa, forse il 1980. Rivedo la scena con chiarezza: ero di passaggio per Torino, e alla Einaudi di via Biancamano 1 incontrai Guido Davico Bonino che mi disse, forse porgendomi una copia fresca de "Il Sexto": "Con questo abbiamo deciso di chiudere con le opere narrative di Arguedas". Accolsi la notizia senza alcun commento. Ma ora posso supporre che Calvino, da tempo attratto dalle vicende della narrativa latinoamericana, avesse dato parere incerto o forse negativo sulla possibilità di tradurre adeguatamente l'ultimo romanzo di Arguedas, del quale appunto qui trattiamo. Così infatti è accaduto: l'abilità traduttoria di Melis non ha potuto evitare che le parti appunto "più" narrative del libro risultassero di lettura ingrata e faticosa. In quelle parti, molto dialogate, Arguedas riproduce la parlata spagnola, deformata però dalla pronuncia degli indios, la cui lingua madre è, nel caso specifico, il quechua. Ebbene, se il traduttore ha giustamente evitato una qualsiasi forma dialettale italiana, che sarebbe risultata aberrante, ha tuttavia scelto per l'italiano "gli stessi scarti rispetto alla lingua colta che si trovano nell'originale" (qui si parla evidentemente dello spagnolo scritto). Ma questa soluzione assomiglia (diamo un caso estremo) a chi vuol far parlare i negri degli Stati Uniti all'infinito e addirittura con le deformazioni come "padrone". Per rendersi conto di questo basta leggere uno dei brani del libro preso a casaccio: "Compare, m'hanno buttato fuori due volte dal mercato Buenos Aires Linea. Prima volta ho lottato, arrabbiato, attaccato lite. Le municipali guardie mi hanno schiaffeggiato, mi hanno tirato bastonate. Secunda volta, tranquillo ho insaccato le mie patate, le mie cipolle; ho aspettato due settimane; poi, di nuovo ho preparato il mio posto. Niente m'han fatto. Sarà così finché posti di parete graticcio, labirinto saranno là. Bene. Secunda volta, quieto ho sofferto, non ho litigato con polezia. Aggiustando scarpa sfondata, maneggiando cucitura sfondata abbiamo sopportato due settimane. Ho detto: povero è proprio come ubriaco di fronte a autorità polezia, di fronte a ingignere capo... " (p. 162). La verità è che - e qui il traduttore poco può fare - Arguedas, nel suo testo, ha optato per una riproduzione naturalistica e meccanica del parlato ispanizzante degli indios, e non ha cercato e trovato - cosa che gli era riuscita soprattutto ne "I fiumi profondi" - una soluzione di trasposizione sintattica e strutturale, o, meglio ancora, una trasfigurazione poetica del dissidio linguistico tra quechua e spagnolo. Le difficoltà sono accresciute poi dall'inserimento di parole in quechua, fornite di nota solo al loro primo apparire, cosicché il loro uso successivo obbliga il lettore a ricercare la nota iniziale o più spesso a rimanere nel vago. Meglio sarebbe stato un piccolo glossario finale.
Ho appena scritto tutto questo e già mi assale il dubbio di non aver presentato al suo giusto livello, di alta qualità letteraria e umana, ma anche ideale e politica - sia pure non del tutto e sempre realizzata -, il romanzo "La volpe di sopra". Del resto, bastano a rendere prezioso il libro le pagine di diario, che nel loro doloroso e lacerante itinerario, nella loro unicità, paiono annullare ogni distanza tra letteratura e vita. Osservazioni acutissime ha scritto, a questo proposito, il critico peruviano Cornejo Polar, il quale ha tra l'altro affermato: "Il linguaggio e l'uomo si distruggono, e si distruggono pure il senso della storia e il senso della realtà - a questo punto soltanto materia incomprensibile".
Un glossario, al pari e più che ne "La volpe di sopra", meritava anche la raccolta di articoli che la casa Einaudi ha fatto seguire di pochi mesi alla stampa del romanzo: "Musica, danza e riti degli indios". Si tratta, come spiega Melis, nella densa e motivata introduzione, di articoli che Arguedas scrisse, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, per "La Prensa" di Buenos Aires: quindi di testi destinati a un pubblico che sapeva e sa pochissimo del mondo indio. Ciò rende più semplici e più scorrevoli, nella loro vivida descrizione e nei particolari (anche se spesso superati da fatti recenti), questi scritti in rapporto a quelli, anch'essi di carattere saggistico e antropologico più rigoroso, già usciti tempo fa con il titolo "Arte popolare, religione e cultura degli indios andini". Qua e là, ovviamente, emerge il grande scrittore che è Arguedas, come nel brano in cui dipinge i tre cavalieri al galoppo "con le chitarre levate in alto". Ma nella maggior parte dei casi ciò che affiora è il formidabile conoscitore delle cose indie, che qui ritrovano la giusta spiegazione e la più appropriata dimensione. E dice bene il curatore quando scrive: "La stessa preoccupazione (oltre a quella dell'uso delle due lingue) anima la descrizione dei riti, costumi, feste, analizzate nella loro evoluzione storica e in particolare alla luce dell'accelerazione dei processi di mutamenti provocata dall'irruzione della modernità. Anche in questi casi, non c'è nessuna mitizzazione di una presunta purezza incontaminata". Eppure lo stesso Arguedas - è inevitabile - lamenta la scomparsa dei mulattieri e dei contrabbandieri all'antica, e altre molte cose travolte dai tempi, come vedrà il lettore.
Ma la pagina più significativa del libro è, a mio giudizio (ma posso sbagliarmi), quella in cui Arguedas fa un paragone tra gli indios del Perù e quelli del Messico (pp. 35-36), a proposito di certe creazioni artigianali, lasciando intendere che l'indio è vincente e non più vinto (come suona il titolo del famoso libro di Wachtel) quando s'impadronisce della tecnica e la utilizza tutta a proprio vantaggio, vantaggio anche culturale, e dove supera il timore della modernizzazione o della stessa ibridazione. Grosso e complesso problema che qui sfioriamo appena.
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