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Mario Benedetti per più di vent'anni di scrittura resta devoto a una pertinace fede ottica. Da Moriremo guardati del 1982 - non a caso il titolo - a quest'ultima Umana gloria, raccolta in cui rielabora e riassume l'intero lavoro poetico precedente, la vista immutabilmente è il senso eletto a comprovare la realtà o, meglio, "il lungo dubbio circa l'evidenza naturale del mondo" (così in un suo articolo su "Scarto minimo", rivista che indicò posizioni e orientamenti della poesia italiana nei secondi anni ottanta, da lui fondata con Stefano Dal Bianco e Fernando Marchiori).
L'evidenza del reale in Umana gloria non osserva la radice etimologica: la realtà non è evidente (e-videri) nel senso che mai "appare interamente". La poesia di Benedetti nasce quindi dalla pena per questo difetto di totalità sempre in bilico nell'imputarsi al soggetto e all'oggetto, esitante tra essere lesione dell'occhio ("come da paure, da un cervello ferito in una parte", Da lontano) o del mondo ("era perché non poteva restare niente di tutto questo / che gli occhi facevano i matti", Da lontano): è la continua possibilità di invertire il rapporto causa-effetto, la reversibilità tra lacuna visiva e realtà parziale a fondare in questa nuova raccolta una vera e propria dottrina della parvenza. L'esito è altissimo: versi che riescono perfettamente a figurare una realtà visivamente imperfetta. O per pecca percettiva o per sua effettiva labilità, il mondo è menomato in una rappresentazione per parti e, dunque, per parti mancanti ("Ruotavo la testa per fare la giostra / con i bambini e con i grandi che vedevo e non vedevo // la tasca, il naso, le ginocchia, una mano con la mela / o con la scodella, o con niente, senza braccio", Da lontano).
Similmente il ricorrente vedere attraverso un'apertura - non per niente il tramite tra occhio e mondo è spesso una finestra - sacrifica il giro esteso dello sguardo incorniciando un riquadro ("Nelle finestre i giorni", Nelle finestre...; "e si può andare dalla finestra, dall'aria della finestra semiaperta fuori / sull'occhio che butta resina", Unico sogno, "A letto era un bel cielo dalle finestre di tanti bei giorni", Da lontano) o, addirittura, vanifica l'oggetto fermandolo tra due possibilità di visione ("L'avevano portata con il carro all'ospedale, e poi quando era venuta / tra quelle due finestre si era fermato", Slovenija). Ancora: se il tutto non è ridotto a porzione allora "scappa in mezzo agli occhi" ("Hanno fame di un cielo che non deve piovere, segnare le scarpe, / scappare in mezzo agli occhi senza smettere", Giorno di festa), sfugge come lasciato indietro ("Con le vie le vetrine ci muovono in una parte nuova, / è come dirsi tutto delle cose che se ne sono andate", Nel quartiere).
In Umana gloria lo sguardo sulle cose è un atto percettivo compromesso all'origine da una visione mostruosa: "Sono venuti giù i sassi, / il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo. / Siamo scappati dagli occhi, il vento nella testa. // Ho pensato ogni giorno a questo solo stare senza sguardo" (Slavia italiana). Nella poesia di Mario Benedetti, nato a Udine nel 1955, il terremoto, il crollo, sembrano costituire il germe del danno che preclude una "visione intera" ("A sapere bene forse potrei dire: / anche per noi una visione intera / con uno specchio sopra, con un cielo", Venerdì Santo) generando una poesia che mirabilmente coniuga appartenenza alle cose ed estraneità alle fisionomie ("Io che sono delle cose negli occhi, / ma non so come sono quando le guardo", Ultimi mondi, 3).
Se l'evidenza delle cose non è mai concessa allo sguardo in presa diretta, la compiutezza non può che essere ricercata nel già fissato, nel già visto. Il richiamo continuo alla memoria - mosso non certo da una vocazione nostalgica nell'intento di cantare esperienze private e minimali -, il ritorno al passato e ai suoi luoghi (sempre accuratamente nominati: Slavia, Cividale, Slovenija, Brest, Calais, i monti del Cantal, Torino e ancora altri) non sono che prove di interezza, di realtà ("I tetti, quei tetti mi dicevano che io ero i miei occhi e non altri", Passi lontani; "È successo un tempo / ma è come fosse adesso / perché anche adesso è un tempo", Figure, 1). Non diversamente i quadri, la stessa letteratura sono testimonianze fermate e dunque integre, visioni a guida della visione ("Con il sole dal faro / scende sui campi parte degli occhi del pittore italiano Lucio Fontana", Pas-de-Calais; "e io guardo quello che ho letto / di una terra che adesso è povera", Sopra una poesia di Esenin). Spesso è l'occhio dell'altro a concedere esistenza: "Giravi gli occhi. Incominciava la casa. Prima non esisteva nulla" (Ricordi, I). In condizioni di "solitudine", in assenza di soccorsi esterni che facciano da puntello e modello (memoria, arte, sguardo dell'altro) la realtà andrà prima immaginata e poi effettivamente guardata ("Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi: / un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota", Che cos'è la solitudine). Esiste insomma in questo sistema ottico-ontologico, tarato per avvicinarsi alla compiutezza del reale, una necessità di corrispondenza a un'immagine pregressa, pena la labilità della percezione e dello stesso oggetto.
Lontana dall'essere una preoccupazione "soltanto" metafisica, questa ostinata volontà di superare la parzialità della visione corrisponde alla ragione della più alta poesia. Lo sforzo di raggiungere un punto di vista assoluto (quello, appunto, di "un fiore che cresce più di quello che possa", titolo di una sezione di Umana gloria) non è più che la necessità di uno sguardo unitario e comune sul mondo, perché la poesia possa stare "sotto gli occhi di tutti".
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