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Sulla tolleranza - Michael Walzer - copertina

Descrizione


Il massimo teorico della sinistra liberale negli Stati Uniti delinea, facendo riferimento a casi storici e a problemi pratici, i nuovi significati che la tolleranza va assumendo alle soglie del Duemila.
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Dettagli

1998
23 ottobre 1998
188 p.
9788842055853

Voce della critica



Habermas, Jürgen, L'inclusione dell'altro, Feltrinelli , 1998
Walzer, Michael, Sulla tolleranza, Laterza , 1998
recensioni di Galeotti, A.E. L'Indice del 1999, n. 09

Il pluralismo non è certo un evento nuovo o specifico del nostro tempo; tuttavia, forse sull’onda di nuovi e più massicci flussi migratori che hanno investito anche paesi fino all’altro ieri d’emigranti, come il nostro, o forse perché le minoranze del mondo contemporaneo sono diventate più rivendicative dei loro diritti, fra cui quello all’identità culturale, è certo che il pluralismo è iscritto come uno dei principali problemi sull’agenda delle democrazie contemporanee. Come convivere nelle differenze, sfruttandone i vantaggi e l’arricchimento, ma neutralizzandone il potenziale distruttivo e conflittuale? Fino a che punto possiamo essere tolleranti senza autodistruggerci? Questi interrogativi che sono alla base della discussione teorica e politica sul multiculturalismo vengono affrontati sia nella raccolta di saggi di Habermas sia nel saggio di Walzer in modi assolutamente diversi che, però, prospettano soluzioni non dissimili.

Il volume di Habermas (nella bella e chiara traduzione di Ceppa) contiene numerosi saggi organizzati in diverse sezioni: le prime due, spiccatamente filosofiche, hanno per oggetto rispettivamente una rimessa a punto dell’etica discorsiva e una critica di Liberalismo politico di John Rawls (1993; Edizioni di Comunità, 1994 e 1999). Le tre successive, più politiche, sono dedicate all’analisi storica e teorica dello Stato-nazione, ai diritti umani in una prospettiva mondiale e alla democrazia deliberativa. È forse da quest’ultima che conviene partire per capire il modo in cui Habermas affronta il problema della convivenza con le differenze. Il modello di democrazia cui egli si richiama vuol distanziarsi tanto dalla concezione puramente procedurale e strumentale, secondo cui la democrazia è semplicemente una forma di governo che più di altre sembra adeguata a una società libera e aperta dove i singoli perseguono autonomamente i propri scopi, quanto dalla concezione repubblicana-roussoviana, secondo la quale è la forma della libertà collettiva in cui i singoli divengono cittadini e costituiscono una comunità politica per il perseguimento del bene comune che è anche il bene di ciascuno.

Habermas pensa invece la democrazia come l’arena in cui l’etica del discorso può esercitarsi e, non a caso, chiama il suo modello "deliberativo". La democrazia non può essere semplicemente strumento al servizio di fini privati e pre-definiti dei singoli così che le decisioni collettive altro non sarebbero se non il frutto di negoziazione e composizione di interessi preesistenti, secondo la lettura liberale e libertaria del metodo democratico. Ma neanche può essere l’imposizione di una volontà collettiva onnivora rispetto ai fini privati e prodotta da virtù civiche, preziose quanto rare, fragili e di non facile reperibilità sul mercato globale. Facendo riferimento al requisito kantiano della pubblicità che impone dei vincoli agli argomenti ammessi nella sfera politica, Habermas vede la democrazia come un processo ideale in cui le ragioni dei partecipanti si trasformano nel corso del dialogo pubblico per essere accettabili, cioè universali. In questo modo il processo di deliberazione democratica è anche un processo di formazione e autocomprensione dei cittadini ed è un modo in cui la libertà collettiva dello Stato democratico viene saldamente ancorata alla libertà degli individui, che tuttavia non è pensata come pre-esistente indipendentemente da questo processo. Questa visione ideale che procede dall’universalità astratta di una politica pensata kantianamente come regno dei fini viene poi sostanziata dalla ricostruzione del processo che storicamente ha portato alla costituzione degli Stati moderni e poi degli Stati-nazione liberali e democratici; ed è proprio nella sintesi di profondità storica e di modellizzazione teorica che Habermas raggiunge i suoi esiti più felici e godibili anche a un pubblico alieno dalla plumbea serietà della filosofia classica tedesca.

In sintesi, Habermas sostiene che se idealmente la democrazia avrebbe dovuto produrre la cittadinanza come esito politico della deliberazione pubblica, in realtà lo Stato-nazione ha parassiticamente usato il popolo (Volk) come fonte dell’unità politica. Questo ha fatto sì che i membri dello Stato, nonché detentori dei diritti, beneficiari della giustizia sociale, ecc., siano pre-definiti in base ad appartenenze etniche che snaturano il carattere universale dei diritti e della democrazia. Lo Stato-nazione, sostenuto da ragioni storiche nel XIX secolo in Europa e nel XX nel Terzo mondo, ha poi mostrato storicamente i suoi limiti e, soprattutto oggi, si rivela del tutto inattrezzato a far fronte ai processi di globalizzazione. Davanti ai confini minacciati da incontenibili ondate migratorie e alla perdita di sovranità in decisioni cruciali, Habermas auspica un recupero della teoria democratica, depurata della contaminazione etnica con la nazione, in modo da recuperare la cittadinanza puramente politica e quindi teoricamente aperta a chiunque. Il processo democratico potrebbe così servire a includere gli altri, non già sulla base di elementi comuni che li rendono simili a noi (e quindi degni di entrare nel club), ma sulla base del riconoscimento dell’eguale diversità di tutti. Il collante comune non sarebbe più la condivisione di un ethos, legato o attribuito a un ethnos, ma la politica democratica e la pura moralità dei diritti umani. Su questa base, Habermas immagina rivisitabile il progetto kantiano della pace perpetua, di un ordine internazionale il cui fondamento stia nei diritti umani.

Se la proposta inclusiva di Habermas è astratta e universalistica, deontologica e kantiana, quella di Walzer procede invece da una ricognizione interpretativa delle possibili pratiche di tolleranza, in diversi contesti storici e istituzionali, che di ciascuna mette in evidenza pregi e difetti, limiti intrinseci e possibili implicazioni. Se tolleranza significa coesistenza delle differenze, questa non viene inventata dalla modernità a seguito delle guerre di religione, ma ha trovato espressione negli imperi sovranazionali, così come nella società internazionale e nelle confederazioni, ben prima che la tolleranza venisse proclamata il baluardo della libertà di coscienza.

Walzer specifica che il tipo di problema oggetto della sua analisi riguarda comportamenti e pratiche espressione di un gruppo e identificanti comunità, non già eccentricità individuali che, tollerate o represse, non hanno mai avuto rilevanza politica. Se la tolleranza ha come oggetto differenze di gruppo e se può indicare atteggiamenti diversi lungo un continuum dalla sopportazione all’accoglimento delle differenze, questa è stata storicamente praticata in due modi tipici: separazione spaziale delle comunità diverse, oppure inclusione individuale nella comunità politica, indipendentemente dalle origini e appartenenze dei singoli, tollerate come scelte private, ma avversate come pratiche di gruppo. Questo secondo è il modo tipico del liberalismo praticato tanto negli Stati nazionali quanto nelle comunità d’emigranti. Si oppone con maggiore o minore tenacia al riconoscimento delle pratiche di gruppo, senza rendersi conto che la cittadinanza non è mai solo politica, ma include tratti culturali del gruppo nazionale maggioritario, come anche Habermas aveva messo in luce.

Questo predominio culturale della maggioranza, sposato alla tolleranza degli individui, è attenuato nelle società d’immigrazione, come gli Stati Uniti, dove non c’è una nazione sola e dove ogni gruppo è arrivato col suo bagaglio culturale e con le proprie pratiche. L’inclusione individuale non è sufficiente, e la nuova assertività delle minoranze l’ha messo in luce. Come Habermas, Walzer non ritiene che le rivendicazioni del multiculturalismo siano di per sé pericolose e disgreganti l’unità politica. Come Habermas, egli pensa che la democrazia possa essere il luogo adatto per includere le differenze, mantenendo in comune l’identità politica dei cittadini. Walzer è meno fiducioso nelle possibilità della democrazia deliberativa di quanto non lo sia in quelle dell’educazione democratica, delle sue narrazioni e dei suoi riti (in altre parole nella religione civile).

Al contrario di Habermas, che sembra concepire le culture dei gruppi come un’ineliminabile zavorra dell’impegno ai diritti umani, Walzer ritiene però che la dimensione comunitaria, che in democrazia si trasforma in associazionismo, sia un elemento indispensabile di una società democratica decente, che è fatta di più sfere sociali, ognuna con una sua specifica funzione. La politica riguarda solo un aspetto della vita associata, ma se oltre le regole di convivenza, quelle di rappresentanza e la distribuzione dell’autorità e del potere politico ci sono solo fluttuanti individui, stranieri l’uno all’altro, come vorrebbero certi promotori di una tolleranza postmoderna, la vita non sembra molto attraente o perlomeno non è per noi valutabile secondo i parametri che finora hanno orientato le scelte collettive e individuali di uomini e donne, impegnati a dare un senso entro o contro le tradizioni alle loro lotte e ai loro obiettivi.

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Conosci l'autore

Michael Walzer

Michael Walzer, uno dei più importanti pensatori politici americani, ha diretto la rivista politica "Dissent" per oltre tre decenni. Ha scritto su una vasta gamma di argomenti di teoria politica e filosofia morale.Tra i suoi titoli pubblicati in Italia ricordiamo Esodo e rivoluzione (Feltrinelli, 2004), Sfere di giustizia (Laterza, 2008), All'ombra di Dio. Politica nella Bibbia ebraica (Paideia, 2013), Le conseguenze della guerra. Riflessioni sullo «Jus post bellum» (Mimesis, 2017) e Una politica estera per la sinistra (Raffaello Cortina, 2018).

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