Talora irritante, talaltra suggestivo questo libro di Ferrone. Come Antony Pagden nel suo recente The Enlightenment and Why it still Matters (Oxford, 2013), anche Ferrone afferma l'attualità dell'illuminismo al fine di ricostruire una corretta teoria liberale occidentale, ma sottolinea il fatto che questa strada fu interrotta dalla rivoluzione francese e non fu poi sviluppata dal successivo liberalismo, che, per colpa di Constant, imboccò una strada alternativa a quella di Voltaire e Filangieri. L'indagine sulla genesi del linguaggio politico illuminista pone quindi pure i problemi della relazione con la rivoluzione e del perché la riflessione politica ottocentesca e novecentesca sia stata infedele alla sua matrice settecentesca. Affronterò solo il primo tema. Una considerazione storiografica si può subito svolgere. Nella storiografia italiana, Ferrone assai più che a Venturi si collega a Diaz: per aver tracciato una storiografia che è illuministica non soltanto per l'argomento, ma perché la storia è pensata in polemica con lo storicismo secondo un atteggiamento fortemente illuminista (non soltanto per il condiviso spirito laico); e perché la dimensione utopistica è completamente sacrificata a pro di quella riformista. Il libro è diviso in tre parti, delle quali la terza è la più originale. Le prime due, con un andamento tra Handbuch e tunnel history del pensiero politico, ricostruiscono come nella riflessione occidentale, da Platone in poi, siano stati pensati i diritti e i doveri umani. Nella cultura cinquecentesca è individuata una frattura decisiva, sia per la sua visione umanistica, sia per l'impatto delle scoperte delle civiltà extraeuropee, che imposero la rinuncia all'aristotelismo: come è noto, il XVII secolo fu l'epoca della contestazione della Politica. Alla drammatica esigenza di fondare un nuovo universalismo quel secolo diede una risposta sistematica, nella quale la politica fu pensata sulla base dello stoicismo e del sistema dell'obbligazione e dei doveri, che nascevano da una teoria della socialità umana, che un tempo si sarebbe detta ontologica. Fu John Locke, qui interpretato seguendo Cassirer, a ribaltare questa visione filosoficamente sistematica e politicamente organicista. Nel pensare l'uomo in termini di funzione e non più di sostanza, l'empirismo mise in primo piano non i doveri, ma i diritti che discendevano dalla natura umana, dalle sue passioni, dalle sue condizioni di vita. Ai doveri si sostituirono i diritti all'affermazione dei propri bisogni, del proprio lavoro; i diritti alla proprietà, libertà e felicità. Tra i momenti analitici più densi di questa parte sono quelli dedicati a Barbeyrac e a Voltaire. L'originale soluzione illuminista mise "per la prima volta insieme l'una e l'altra cosa: i diritti stavano certamente nella natura dell'uomo, ma dovevano essere storicamente riconosciuti e soprattutto politicamente messi in pratica attraverso il governo della legge e la loro costituzionalizzazione". Tale sintesi si ebbe nel tardo illuminismo, che a Parigi o nella Milano di Beccaria riuscì a unire in un pensiero coerente "diritti naturali e passioni, giusnaturalismo contrattualistico e utilitarismo, Rousseau e Helvétius" (. Fu tuttavia Gaetano Filangieri che diede a quella sintesi forma compiuta, anche perché alla cultura illuminista francese e scozzese Filangieri seppe unire la riflessione di Vico sul diritto naturale (letto con il ricorso a Nicola Badaloni). La terza parte ha più dispiegato andamento storico. Mostra come le teorie dei diritti umani di Locke e Voltaire si siano diffuse nell'opinione pubblica, e come l'abbiano politicizzata: di interesse notevole è l'analisi della circolazione di tali diritti nelle opere teatrali e nella cultura tedesca. Eppure questa politicizzazione aveva al suo interno una difficoltà, che era rappresentata da Rousseau. Il tardo illuminismo si caratterizzò per l'entusiasmo per il Rousseau della Nouvelle Heloïse e per il rifiuto della sua teoria politica. Ferrone riconosce che con il ginevrino il discorso sui diritti umani da filosofico si fece politico: ma questa teoria è per lui uno "scintillante paradosso". Rousseau ripensò il sistema dei diritti introducendovi l'eguaglianza e collegò il problema dei diritti umani alla sovranità popolare. Più che di un paradosso, Rousseau ebbe la consapevolezza di avere messo al centro una tragica alternativa, che era la possibilità di pensare la società libera e democratica e l'impossibilità di realizzarla. Il tardo illuminismo provò infatti a evitare quel percorso. "Laddove Rousseau aveva affidato al legislativo, alla volontà generale della repubblica democratica, la protezione dei diritti individuali Filangieri aveva invece preferito costituzionalizzarli affidandone la protezione ai giudici". Ma era inutile nascondersi la difficoltà, che già Montesquieu aveva posta in evidenza: "Dans l'exercice de la police c'est plutôt le magistrat qui punit que la loi" (Spirito delle leggi, XXVI, 24). L'antitesi tra sovranità popolare e police, non tra la prima e il costituzionalismo (nel senso del Settecento) fu la grande difficoltà da superare. Il problema era quello di assorbire il costituzionalismo nel sistema della volontà generale. Il costituzionalismo come alternativa alla volontà generale non poteva che ricondurre alla police: poteva limitarne e regolarne le forme. Diderot nella terza edizione dell'Histoire philosophique chiarì l'antitesi tra sovranità o autonomia del legislativo e police (che magari poteva prendere le forme del costituzionalismo octroyé): o la volontà generale a base di una società libera, ovvero una società politica che diviene preda della police e il cui ordine è quello arbitrario di un convento; perciò la sovranità era la sola, necessaria e irrinunciabile protezione per la libertà e la felicità. Lì si radicava pure la riflessione sull'eguaglianza e la democrazia. Al solito, era stato Rousseau a impostarlo con chiarezza: il problema era non già negare l'evidente disuguaglianza fisica, ma trasformare quella in eguaglianza politica. Ferrone ritiene che l'illuminismo raggiunse la sintesi concettuale politicamente e storicamente feconda che invece fu per i philosophes il problema da risolvere. Il problema diventa la soluzione. Ma la rinuncia alla democrazia in nome del repubblicanesimo in Europa diede vita a una speranza nell'azione riformatrice indirizzata verso il repubblicanesimo che venne sempre più delusa. Con l'eccezione di Vienna e soprattutto di Carlo III di Borbone, che prima a Napoli (1734-1759), poi a Madrid (1759-1788) fu il vero sovrano riformatore, come comprese Diderot, ma del quale qui non si parla. Tra riforme e utopie si scavò un solco, perché con le prime, deboli e debolmente realizzate: (si pensi al problema fiscale!) ci si spostò sempre più verso un'ideologica prospettiva di cambiamento, che si svolgeva nell'ordine del discorso e non nella realtà; nelle seconde si ponevano i problemi più profondi della società. Ferrone più che l'indagine sulla dinamica riformista privilegia la lotta politica quale si svolse nei circoli massonici europei, dove si ebbe la crisi della massoneria e "la contemporanea confluenza di gran parte dei circoli illuministici nelle logge per meglio condurre l'attacco riformatore all'Antico regime". La distinzione delle due dinamiche è giusta: ma puntare sull'episodio degli illuminati di Baviera conferma l'esilità delle prospettive riformatrici. Pare comunque difficile sostenere che in Germania il compito dei riformatori illuministi negli anni novanta, poi coronato dalla costituzione del 1794, "venne ostacolato non poco dall'apparizione sulla scena dalla piccola quanto rumorosa e inquietante corrente giacobina e radicale che s'ispirava a Rousseau". Forse per intendere l'ultimo trentennio del secolo ne andrebbe colta l'ansia di rigenerazione ab imis, che nel linguaggio di Diderot era la rivoluzione, il desiderio di trasformazione radicale della società e degli uomini. Vico fa parte dell'orizzonte della cultura settecentesca e illuminista, come però anche Buonarroti. Davvero l'utopia comunista fu estranea alla teoria dei diritti dell'uomo e all'illuminismo? Girolamo Imbruglia
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