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A fronte del carattere maldestramente epigonale di tanta "teoria critica" contemporanea va salutata come decisione opportuna quella di riproporre, nel catalogo di un suo editore storico, una scelta rappresentativa degli scritti di un gruppo intellettuale, la Scuola di Francoforte, che ha segnato una stagione importante della cultura del Novecento. Una stagione che si è allontanata a rapidi passi negli ultimi tempi, oltre che per il venir meno dell'impegno politico che l'aveva sorretta, anche per tre ragioni interne alla storia delle idee: in primo luogo, perché la coniugazione di Marx, Hegel e Freud su cui in ampia misura si era fondato il programma teorico della Scuola è apparsa sempre più problematica; in secondo luogo, perché a quei padri ispiratori la teoria critica fin de siècle è venuta sostituendo un'altra sacra famiglia costituita da Schmitt, Arendt e Foucault, di cui si sono variamente miscelati gli umori (esemplare a questo proposito l'opera di Giorgio Agamben, a partire da Homo sacer ); infine, perché gli stessi eredi, in primis Jürgen Habermas, avevano sottoposto quella piattaforma intellettuale a una critica così radicale da far sembrare, al di là delle reverenze di maniera, quel terreno ormai del tutto inedificabile a una teoria che non volesse rinnegare le ragioni della modernità.
Va detto poi che, nel corso degli ultimi anni, l'attenzione degli studi si è venuta rivolgendo in maniera crescente a figure che, pur appartenendo all'arcipelago della teoria critica, non avevano fatto parte della Scuola o del suo nucleo forte: la sempre maggiore conoscenza dell'opera di Walter Benjamin, la valorizzazione dell'intera produzione filosofico-politica di Hannah Arendt, la divulgazione della filosofia della tecnica in veste di antropologia negativa di Günther Anders, la riscoperta di lavori dimenticati di Franz Neumann, Otto Kirchheimer, Ernst Fraenkel, Emil Lederer hanno permesso di contestualizzare meglio l'apporto dei francofortesi. Alla luce di queste acquisizioni, i contorni di una compagine già di per sé molto eterogenea, salda soltanto nel ferreo sodalizio dei capiscuola, diventavano così meno netti. Enrico Donaggio, nell'apprestare questa silloge, si è saggiamente concentrato sugli autori e sui testi che meglio si prestavano a far risaltare il profilo unitario della Scuola: ma lo ha fatto in modo da consentire al lettore di cogliere contestualmente le crepe che fin da principio hanno segnato i neoclassici frontoni dell'edificio.
Il curatore ha premesso a questa felice scelta dei testi una penetrante introduzione che si apre con pagine di disincantata meditazione sul ruolo dell'intellettuale militante e della critica sociale, per poi passare in rassegna i nodi problematici affrontati dall'Istituto per la ricerca sociale - la critica della scienza e della metafisica, il connubio tra psicoanalisi e marxismo, la critica della cultura di massa, la diagnosi del totalitarismo - senza nasconderne le elusioni, le aporie e l'involuzione negli anni del dopoguerra. Con la teoria critica il primo Horkheimer si era proposto una radicale revisione del marxismo che tenesse nel debito conto i mutamenti strutturali della società e il dileguarsi di una soggettività portatrice privilegiata dell'emancipazione. Ma nell'ultima fase la finalità della Scuola - ben compendiata nella formula "Solo un Io ci può salvare" - viene a ridursi alla difesa, rassegnata nei suoi contenuti pratici, dell'individuo e della soggettività in un'epoca che ne minaccia la cancellazione.
Per quanto ospiti testi tratti dai momenti più alti della speculazione della Scuola, dalla Dialettica dell'Illuminismo e da quel "trattato di microfisica della barbarie quotidiana" che è Minima Moralia , l'antologia documenta in fondo il duplice fallimento teorico a cui è andata incontro: il primo, implicito nelle premesse del progetto, riguarda la sua incapacità di pensare, sia pure criticamente, le istituzioni dello stato di diritto e della democrazia costituzionale - ciò che da ultimo avrebbe tentato il suo più autorevole erede, Habermas (giustamente non incluso nella silloge); il secondo pesa ancora di più, perché collide con quelle premesse: l'incomprensione nei confronti della patologia estrema della modernità, la Shoah, pur eletta da Adorno "a tema implicito, a tormento e sfondo costante della sua riflessione". Posta di fronte all'estremo, anche la filosofia francofortese manifesta quella carenza di strumenti che accomuna l'intera filosofia del Novecento (e su ciò si veda la sintomatica antologia, curata sempre per Einaudi da Simona Forti, La filosofia di fronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica , 2004). Sull'identificazione delle cause e della natura di quella catastrofe politica e culturale la Scuola di Francoforte non avrebbe trovato l'unità. E forse non è un caso che, a spingersi più avanti nella diagnosi e nella composizione di una sintesi interpretativa, sia stata una pensatrice che alla Scuola non appartenne, che alla scuola guardò con sospetto, e con sospetto fu ricambiata: Hannah Arendt.
Pier Paolo Portinaro
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