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Anno edizione: 2023
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Da Tucidide a Schmitt, da Machiavelli a Foucault, le varie dimensioni del realismo politico e la sua attualità come criterio d'interpretazione del mondo politico e teoria critica delle patologie del potere.
recensioni di Griffo, M. L'Indice del 2000, n. 06
Questo libro sul realismo politico ha un duplice fine. Il primo - quello ufficiale, per così dire, e rispondente peraltro agli obiettivi della collana editoriale in cui esso vede la luce - è di fornire un quadro esauriente di un'importante corrente di analisi dei fatti politici, che ha alle spalle una lunga tradizione, offrendo al lettore italiano un'aggiornata e precisa messa a punto e una soddisfacente sistemazione. E diciamo subito che in un siffatto compito l'autore si produce egregiamente, dando le coordinate generali del tema e seguendo il filo millenario degli scrittori politici che possono definirsi realisti, da Tucidide a Machiavelli, fino a Weber, che resta il referente più prossimo. Il realismo politico, allora - lungi dall'essere una dottrina o una corrente di pensiero politico assimilabile ad altre, sia generali e un po' indeterminate come il repubblicanesimo o più definite come il liberalismo o il socialismo -, è più semplicemente un'attitudine disincantata, ma non puramente cinica o nichilista, verso le dinamiche del potere. Talché l'etichetta di realista può riunire autori assolutamente distanti fra loro come Marx e Pareto, entrambi accomunati però dal rifiuto delle superfetazioni ideologiche.
Il secondo fine del lavoro, non espresso, ma percepibile lungo tutta l'esposizione, è quello di rivalutare la tradizione di analisi politica realista e di rimuovere rispetto a essa la condanna di tradizione demoniaca o luciferina che da sempre la accompagna. E riguardo a questo secondo e più mimetico intendimento si può dire che la rivalutazione riesce in maniera convincente, anche perché viene effettuata, per così dire, richiamandosi a quello stesso principio di realtà, al fine di trovare degli argini alla volontà di potere e di potenza. In altri termini, se l'assunto del realismo è il riconoscimento dei rapporti di potere esistenti, questo approccio non si risolve in un'apologetica della forza fine a se stessa, ma si articola in quella che Portinaro chiama una "dietetica del potere, dunque una dottrina della moderazione strategica". Ovvero se il realismo parte "dal presupposto strutturale dell'ostilità e dall'esistenza del nemico", come tecnica di governo esso "lavora contro l'assolutizzazione dell'ostilità e la criminalizzazione del nemico". D'altronde, all'interno della tradizione di pensiero che analizza, l'autore opera una scelta assai definita verso quello che si può definire il realismo moderato, come già mostra la dedica a Bobbio posta in esergo. Seguendo questo filo conduttore Portinaro ricorda che il realismo, a partire dalle analisi di Montesquieu e poi di Tocqueville, incontra il liberalismo come dottrina del governo limitato. Tuttavia, più che il principio della divisione dei poteri è "il modello del governo misto", cioè di un equilibrio fondato sulle effettive articolazioni della società, che rappresenta più compiutamente "l'orientamento realistico in ambito istituzionale".
L'unica riserva che, in conclusione, ci sentiamo di avanzare rispetto a questa puntuale e attenta ricostruzione di Portinaro riguarda la lettura forse un po' restrittiva del concetto di costituzionalismo, che sembra affiorare in qualche passaggio. Il costituzionalismo, infatti, come tecnica della limitazione del potere, non è assimilabile alla teoria del diritto mite, perché non svaluta il ruolo del potere esecutivo, ma lo valorizza per fondare in modo stabile l'ordine politico.
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