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“Ciò che noi comunemente chiamiamo mente è un‘entità separata e indipendente dal corpo, che agisce su di esso tramite un organo ricettivo chiamato cervello, o invece è totalmente legata al corpo, prodotta dal cervello sulla base di esperienze fatte con il corpo stesso e capace, a sua volta, di influenzare il cervello e il corpo nel suo insieme?” (p. 8)
È con questa domanda che si apre il saggio scritto da Michel Le Van Quyen, responsabile di un gruppo di ricerca presso l’istituto del cervello e del midollo spinale dell’Hopital de la Pitiè-Salpetrière a Parigi. Studente e dottorando del famoso neurobiologo Francisco Varela, Michel Le Van Quyen ha una tesi ben precisa: le sensazioni, le emozioni ed i pensieri generati dal cervello nella nostra vita quotidiana non solo influenzano il corpo e le sue prestazioni, ma esercitando una forza sul cervello stesso, andando a modificarlo nella forma e nel funzionamento.
Incredibile direte voi, probabile diranno altri, dimostrato scientificamente afferma Michel Le Van Quyen.
Per questo ci porta una serie di esempi pratici, di studi fatti su pazienti o affetti da particolari patologie come la sindrome di Parkinson oppure da attacchi di epilessia, che supportati da particolari tecniche di meditazione e controllo del pensiero, sono riusciti a ridurre l’impatto della loro malattia sul loro corpo, limitandone anche il dolore.
"Che bella scoperta" starete pensando, i fachiri o le persone che riescono a camminare sui carboni ardenti già da tempo usano tecniche di autoipnosi o meditazione per riuscire nelle loro imprese. “Vero!”, ma in questo saggio c’è molto di più: c’è la storia di chi è riuscito a condurre una vita normale dopo un terribile ictus, che gli aveva parzialmente bloccato la parte sinistra del corpo, re-imparando a fare i gesti daccapo, proprio come un neonato. Il nostro cervello dunque è in grado di autoriprogrammarsi e di autosettarsi in modo da far tornare il corpo a compiere gesti andati perduti con la morte cerebrale di alcuni neuroni dedicati a quei movimenti. Ecco quindi che il concetto di neuroplasticità assume una valenza importante nella nostra quotidianità.
Medicina occidentale (tradizionale) e medicina orientale (cinese) non dovrebbero dunque giocare uno stupido braccio di ferro che confonde solo le idee ai pazienti, ma anzi dovrebbero supportarsi, unirsi e completarsi con un unico scopo: il benessere delle persone. Da una parte infatti ci sarebbe una limitazione dell’uso dei farmaci, con conseguente diminuzione dei loro effetti collaterali (e risparmio reale), dall’altra una stimolazione attiva del paziente, che si vedrebbe catapultato al timone del suo processo di guarigione e non in attesa del miracolo che magari non arriverà mai. Provate a pensarci. Difficilmente lo stesso farmaco agisce esattamente allo stesso modo su pazienti diversi, con storie diverse, stato d’animo diversi e approccio alla vita differente.
Recensione di Marco Cattaneo
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