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Lo stile, che nell'appendice critica è definito "poetico", è in realtà un pesante sproloquio fatto di giochi di ripetizioni che vorrebbero essere ricercati e invece appaiono solo cacofonici. L'aggettivo-jolly, attribuito ad almeno un sostantivo ogni due o tre pagine, è "blu" (occhi blu, vestiti blu, notti blu, sguardi liquidi e blu...). Sarà anche il colore simbolico della Madonna, ma De Rosa ne fa un uso smodato, che alla lunga infastidisce il lettore e non gli dà modo di prendere sul serio quello che legge. La trama, che viene definita come distante dagli stereotipi dell'emigrante italiano in America, è incentrata su zingari cattivi che rubano bambini e nonne italiane che non fanno altro, dalla mattina alla sera, che sbriciolare peperoncini essiccati da conservare in barattoli. In effetti il romanzo è molto distante dai cliché sul genere del Padrino, ma solo perché non parla di mafia: altrimenti sarebbe stato senza dubbio un pullulare di lupare e completi gessati. Non sono riuscita ad apprezzare nulla di Pesci di Carta, nemmeno una descrizione di due righe, nemmeno i nomi dei protagonisti (Carmolina. E che razza di nome è?). Niente. Cassato sotto ogni punto di vista. Per questo, ma è solo una mia opinione (alcuni professori universitari, nella postfazione, la pensano diversamente da me) inserire Tina De Rosa nella cerchia dei grandi autori italoamericani, a fianco di scrittori del calibro di Fante e Ferlinghetti, mi sembra davvero eccessivo.
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