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Pessimo prodotto di tanta pseudo-letteratura oggi in circolazione. Storia banale e tanto, troppo turpiloquio. Da evitare.
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Qualche anno fa ho cominciato a dirigere una collana di narrativa.
Nel primo romanzo che ho pubblicato, il padre del protagonista era morto, caduto dal tetto. Nel secondo, era stato ucciso in una zona di guerra. Dato che le mie scelte non avevano nulla a che fare con riflessioni di ordine tematico, ma solo di qualità prosastica e strutturale, non poteva che essere una coincidenza. Anche nel terzo romanzo, però, il padre era morto: addirittura ghermito da una maledizione. Nel quarto era un inetto che passava le giornate al bar. Nel quinto, la figura paterna, che sostituiva di fatto il padre del protagonista, si rivelava uno sbirro invischiato in trame nere. Nel sesto il padre non c’era proprio, c’era solo la nonna. Babbo assente anche nel settimo. Nell’ottavo, a essere padre era il protagonista, ma abbandonava moglie e figlio per dedicarsi alla sua collezione di serpenti. Nel nono era sostituito da un “putapadre”, e via così. Non sarà, mi son detto, che la letteratura italiana contemporanea esprime tra le righe un nodo problematico, che ci riguarda tutti, rispetto alla figura paterna?
Anche pescando tra i romanzi italiani più interessanti usciti in queste settimane, ecco che il padre, o meglio la sua assenza, domina il campo. Nella Parte migliore di Christian Raimo, la preoccupazione dell’autore non è tanto indagare la famiglia contemporanea – o, nel romanzo precedente, la coppia – quanto, in entrambi, scandagliare la Roma odierna, proprio là dove appare più amorfa, alla ricerca di ciò che, in assenza di grazia, potremmo chiamare “bene”. Pure, questa indagine richiede determinate condizioni. Il padre, nella Parte migliore, balugina a metà libro, una figura cupa e sgualcita, che non fa che rinforzare la percezione di come la storia di quella difficile alleanza tra due donne, tra una madre e una figlia, in un tempo atomizzante, possa esistere solo senza un padre di mezzo.
Vanni Santoni
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