Il rapporto presentato dalla Fondazione Agnelli è una miniera di osservazioni e di dati per valutare la riforma del 3+2, a dieci anni di distanza dalla sua introduzione nel sistema universitario italiano. Ha raggiunto i suoi obiettivi, oppure al contrario è stato un fallimento? La riforma, entrata in vigore nell'anno accademico 2000-2001, voleva allargare il numero dei laureati, abbreviare i tempi per il conseguimento del titolo, preparare studenti adatti alle trasformazioni produttive del nostro paese, permettendogli parallelamente migliori condizioni lavorative, in termini di gratificazione e di retribuzione. A guardare i risultati del 3+2 dopo un decennio gli elementi di contraddizione e di ambiguità appaiono dominanti: espansione dell'offerta formativa ma con una varietà che è andata decrescendo rapidamente, aumento degli iscritti ma paralleli alti livelli di dispersione scolastica, un numero maggiore di laureati ma con una selezione sociale che si è comunque spostata dal primo al secondo livello, maggiore possibilità di trovare lavoro dopo la laurea ma a condizioni di diffuso precariato e a livello salariali non adeguati. Si potrebbe andare avanti, ma per gli estensori del rapporto è chiaro che la riforma ha raggiunto solo parzialmente i suoi obiettivi ed è stata essa la vera vittima di un intreccio di interessi e di disinteresse da parte dello stato e degli atenei. Il primo ha progressivamente indebolito le università attraverso un sistematico taglio del finanziamento pubblico, dimostrando di non voler sostenere un reale cambiamento al suo interno. Gli atenei, dal canto loro, hanno difeso i propri interessi corporativi, alimentando la crescita indiscriminata di corsi di laurea non coerenti con la richiesta del mercato e ampliando il reclutamento di ricercatori e professori, prosciugando le già limitate e diminuite risorse sulle quali potevano contare. L'analisi della Fondazione Agnelli ha indubbiamente molti elementi di verità, a partire dal progressivo abbandono a se stessa dell'università da parte della politica (poiché non si può dimenticare che non solo i governi ma anche le opposizioni hanno dimostrato in questi anni di non attribuire all'istruzione, in tutta la sua filiera, un valore strategico per le prospettive del paese) e dalle non secondarie responsabilità delle classi dirigenti degli atenei italiani nel conservare e rafforzare un potere baronale e anagraficamente (per non dire scientificamente) vecchio, il cui riflesso più evidente è stata la possibilità di indire e controllare concorsi. I nuovi laureati, tuttavia, non scioglie alcune questioni di fondo e propone ricette discutibili. Non si spiega, per esempio, come si possa contestare all'università italiana con un'età media tra le più elevate e un rapporto tra docenti e studenti tra i più alti e negativi a livello europeo l'aver voluto (anzi dovuto) portare al suo interno una nuova generazione di studiosi. Casomai bisognerebbe domandarsi per quale ragione, al contrario, la sua classe dirigente, con gravi responsabilità nei dissesti e in un uso privatistico dell'università, sia rimasta in carica e difesa dai diversi governi che si sono succeduti, anzi per esempio valorizzando un rapporto privilegiato tra ministero e Conferenza dei rettori (Crui) che è e rimane un'associazione privata e ascoltando assai poco tutte le componenti dei lavoratori. Né si comprende come si potrebbe svecchiare l'università mettendo a sua disposizione sia per il reclutamento dei ricercatori e dei docenti sia per lo svolgimento della ricerca sempre meno risorse, anzi limitandole a quelle necessarie per pagare gli stipendi (peraltro tra i più bassi d'Europa). Ma il difetto almeno tale per chi scrive, ma che da altri può essere letto semplicemente come un punto di vista diverso nell'analisi della Fondazione Agnelli è nel manico, anzi nel titolo stesso, ossia nell'attribuire il vero e unico valore della formazione universitaria nell'essere funzionale al mercato del lavoro. Non la conoscenza come valore e ricchezza in sé di un paese, non una formazione che attribuisce al sapere a tutti i saperi un ruolo strategico nello sviluppo sociale ed economico complessivo, bensì la sua possibilità di tradursi in figure professionali flessibili e compatibili con le trasformazioni dell'apparato produttivo. Di qui la centralità di parole chiave merito, valutazione, internazionalizzazione, competizione, ecc. come strumenti che dovrebbero autodimostrarsi senza alcun bisogno di confrontarsi con la realtà. È, per esempio, evidente nel modo in cui il rapporto affronta la questione strategica sul piano dell'equità sociale e dei fondamenti costituzionali del diritto allo studio: vengono proposte la possibilità di alzare le tasse, la differenziazione degli atenei, l'abolizione del valore legale della laurea, i prestiti d'onore, in un insieme progressivo di misure che, secondo gli estensori, dovrebbero essere riequilibrate da un ruolo forte dello stato per evitare che i più deboli ne vengano schiacciati. Senza tuttavia tenere conto né della progressiva dismissione del ruolo statale e regionale nella garanzia effettiva di tale diritto né dei danni individuali e sociali che tali pratiche hanno prodotti nei paesi (vedi Stati Uniti e Gran Bretagna) dove tali misure sono state attuate. Bruno Maida
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