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Anno edizione: 1997
Anno edizione: 2004
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il migliore di Bettin senza dubbio, anche se pure "Qualcosa che brucia" ha le stimmate dell'ottimo. Però questo è davvero travolgente, con alcune 'scene' (la discesa saltante/volante, la morte degli amici di Ale, anche il rapporto madre-figlio) palpitanti, che si aprono tridimensionali in tutta la loro spettacolarità. Paradossalmente (!?) è un testo molto più filmico dell'opera di Gaglianone, che purtroppo sconta la sua povertà di budget. Al contrario di quanto fatto da Picca con "Bellissima", la canzone che da il titolo al romanzo è usata in maniera utile e davvero pregna. Da canzone d'amore a urlo di libertà!
Recensioni
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recensione di Cerasi, E., L'Indice 1997, n. 4
"La mia vita comincia dal niente" confessa, sul finire, un personaggio dell'ultimo romanzo di Gianfranco Bettin. "Dal niente non si genera niente" era, secondo Aristotele, la verità fondamentale di "coloro che per primi filosofarono"; lo stesso Aristotele tradusse questa legge nel suo "principium firmissimum" detto poi "principio di non contraddizione". Gianfranco Bettin, avvicinandosi in questo alla diffusa insofferenza della cultura contemporanea nei confronti della logica aristotelica, ritiene invece che la contraddizione, la dissonanza atonale, sia qualcosa di assolutamente reale.
E infatti la storia di Ale, ragazzo - ora forse ultratrentenne - cresciuto nella periferia industriale di Marghera, in un clima di emarginazione sottoproletaria, proprio della contraddizione è testimonianza. Figlio di una ragazza-madre con problemi psichici, ossessionato da una rabbia tanto istintiva quanto irriflessa, per vendetta e per giustizia dà fuoco alla casa dalla quale una coppia di anziani a lui cari è stata ingiustamente sfrattata. Ale finirà in riformatorio, ma lì, nonostante un tentativo più simbolico che reale di fuga, riuscirà a riscattare tanto la propria condizione quanto quella sempre più compromessa della madre.
La contraddizione, dunque, mi sembra il nucleo centrale del romanzo. Bettin - e non da oggi, si pensi ai lavori precedenti: "Qualcosa che brucia" (Garzanti, 1989; cfr. "L'Indice", 1989, n. 4) e "L'erede" (Feltrinelli, 1992; cfr. "L'Indice", 1993, n. 2), per limitarci alla sua produzione narrativa - è mosso dall'intenzione di misurarsi seriamente con gli aspetti più lacerati e crudi della nostra società, con i quali egli stesso ha avuto a che fare. E i personaggi di cui Bettin ci parla, siano o no reali, portano visibilmente i segni dell'inquietudine e della dissonanza (nonostante - con un contrasto felice - siano portati a cantare canzoni sempre rigorosamente "tonali"); e forse, di per sé, avrebbero anzi richiesto che la narrazione rimanesse più fedele a questa inquietudine. Si ha invece la sensazione che Bettin sia continuamente tentato da una via di fuga dalla contraddizione. Il destino, annunciato già dal titolo come elemento tematico del romanzo, svolge una funzione consolatoria e prepara un riscatto soltanto individuale: "Questo vuole il destino per noi, così era stabilito"; "È il destino, ripeteva"; "Lavorava il destino"; "NEL NOSTRO DESTINO STABILITO"; "Venivamo dal niente (...). E al niente siamo destinati". Il destino ha la funzione di giustificare la contraddizione inserendola in una fatalità, non sembri paradossale, di sconfitta collettiva e di salvezza individuale.
Non alludo tanto al finale, solo parzialmente positivo; è l'intera narrazione a oscillare tra una contraddizione apparentemente insolvibile ("'È un mondo senza cuore', disse lei"; "Ladra la vita, ladra ladrona") e la sua soluzione psicoanalitica. Sembra di capire, insomma, che il vero nodo con cui Ale deve confrontarsi sia non già la durezza della periferia sottoproletaria di Marghera ma la pulsione di morte data da un incesto pur solo simbolico, e che da questo dipenda la sua sorte complessiva: "Forse l'ho desiderato, di cadere. Ma se era una pulsione di morte, si confondeva con uno slancio di vita".
Anche questa è, naturalmente, una contraddizione, non meno seria della prima. Da questo ulteriore nodo si dipana però la prospettiva che prima qualificavo come consolatoria per la quale l'unico modo di opporsi all'inadempienza della vita nei nostri confronti è raccontarla: "Racconta, nemmeno il destino te lo può impedire"; "Se potessi oltrepassarla, se potessi sostenerla nel tempo, come si sopporta una ferita, un dolore, se riuscissi a dirla, se sapessi raccontarla, la storia".
L'oscillazione tra questi due ordini di discorso, in sé legittima, si presenta tuttavia nel libro di Bettin come un'ambiguità irrisolta, che tende a compromettere lo stesso impianto linguistico del romanzo. È come se questa duplicità di livelli fosse tenuta assieme da un tono a volte un po' sentenziale e comunque stonato, poco credibile in bocca a un personaggio come Ale. "Un'ombra pallida entrò nella camera buia. Il cuore mi si arrestò e un brivido, un ragno freddo mi percorse tutto il corpo". "Ombra pallida", "ragno freddo", sono espressioni che corrispondono a un personaggio eccessivamente carico di stratificazioni semantiche, cui, forse, avrebbe giovato una maggiore semplicità.
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