Sì, è proprio un naufragio quello che Alessandro Leogrande racconta nel suo ultimo saggio. Il naufragio di una nave albanese, la "Kater i rades", ma anche il naufragio della politica e della giustizia. Che rimanda ad altri naufragi di
boat people (fino ai più recenti, determinati dai cosiddetti "respingimenti") e ad altri naufragi giudiziari, come quello dell'inchiesta per la strage di Ustica. Il fatto è atrocemente banale. Scrive Leogrande, rendendo esplicito lo sgomento e lo stupore del reporter che ha percorso tutte le strade per poi ritrovarsi di nuovo in quella iniziale, nell'evidenza dell'evento: "Insomma, sembra difficile crederci, ma è andata proprio così. Dall'alto della fregata Zeffiro il comandante e i suoi uomini vedono una carretta che arranca piena di donne e bambini. Vedono che qualcuno di loro alza al cielo il proprio figlio avvolto in una coperta, vedono una donna e poi un'altra che ripetono lo stesso gesto, e la prima cosa che pensano è che alle loro spalle possano nascondersi dei cecchini armati". Era il 28 marzo del 1997, venerdì santo, e in Albania infuriava la guerra civile causata dal crollo delle finanziarie. Erano passati parecchi anni dalla fine del regime di Enver Hoxha e quelle traversate dell'Adriatico, dalla costa di Valona alla Puglia, avevano una natura più urgente e disperata del grande esodo dell'inizio degli anni novanta. Bardosh, la cui storia apre il racconto, decise di partire con sua moglie Kasjani e i figli Dritero e Kostandin: "Non per scappare dalla povertà, ma per salvare la pelle. Non per cercare il pane, un lavoro, una nuova casa, ma semplicemente per evitare le pallottole in strada, i regolamenti di conti, quello stato di pericolo ormai insostenibile, l'assenza di prospettive". Il mezzo che trovò, assieme ad altri novanta suoi connazionali, fu la "Kater i rades", una piccola motovedetta, con tre cabine sottocoperta e un ponte di venti metri. Un mezzo idoneo a ospitare un equipaggio di dieci persone, che ne imbarca quasi centoventi. La sproporzione tra mezzo e passeggeri è un altro elemento ricorrente di tutti i naufragi. Ma quel giorno c'è un elemento ulteriore: il terrore per un'"invasione albanese" dell'Italia è al centro del dibattito politico. Alla forsennata propaganda della Lega (quella stessa mattina Irene Pivetti, fino a qualche mese prima presidente della Camera, in un'intervista al "Corriere della Sera" ha sostenuto che per fermare l'invasione bisogna "ributtare a mare" i profughi albanesi), il centrosinistra risponde con timidi balbettii accondiscendenti. Tre giorni prima il governo, guidato da Romano Prodi, ha varato, d'accordo con il governo albanese, misure di controllo e pattugliamento che prevedono anche il ricorso all'
harassment. Leogrande ci spiega che questa parola inglese, nota in Italia a proposito di altri contesti (
sexual harassment, molestie sessuali), nel vocabolario militare sta per "azioni cinematiche di disturbo e interdizione". In parole povere, per indurre un
boat people a fare marcia indietro si è autorizzati a "tagliargli la strada". Ed è quanto accade, fino al terrificante impatto e al naufragio. I morti sono 57, i dispersi 24, i superstiti 34. Tra loro c'è Bardosh (a cui Leogrande affida il racconto dell'
harassment visto da bordo), ma non ci sono Kasjani, Dritero e Kostandin. Le vittime sono per la maggior parte le donne e i bambini. Gli altri naufragi cominciano un istante dopo. Quello della politica, con il governo che, ancora prigioniero della propaganda leghista, non raggiunge Brindisi per incontrare i sopravvissuti e i familiari delle vittime. E con Silvio Berlusconi, leader dell'opposizione del momento, che invece si precipita sul luogo del dolore e, davanti alle telecamere, accenna un pianto. Quello della giustizia: gli unici responsabili sono il comandante della "Sibilla", la nave italiana che con lo "Zeffiro" ha condotto l'
harassment e causato l'incidente, e il pilota albanese della "Kater i Rades". Ma quest'ultimo per ragioni tecniche, amministrative, equivalenti alla guida senza patente, il primo per l'atto materiale: non ci sono dubbi sulle responsabilità. Il buio è totale, però, rispetto alla catena di comando. Nel processo si scopre che i nastri delle comunicazioni terra-mare sono vuoti o disturbati. Sì, proprio come le comunicazioni terra-cielo nell'indagine sulla strage di Ustica. Leogrande tiene saldamente il pugno il timone di un racconto complesso, assume il punto di vista delle vittime e secondo la lezione di Ryszard Kapuscinski - dà voce a chi voce non ha. Incontra i superstiti, i familiari delle vittime. Rileva che, proprio come per la stragi italiane, sono loro gli unici detentori della memoria. Percorre a ritroso la rotta della morte. Torna in una Valona totalmente diversa da quella del 1997 che ricorda tanto le periferie del nostro Meridione. Racconta il percorso della comunità albanese, la sua sempre più piena integrazione in Italia e soprattutto a Roma. La vita è andata avanti e questo solo fatto rende ancora più scandalosa e assurda la strage. Giovanni Maria Bellu