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Anno edizione: 1981
Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2015
Nel 1922, a Francoforte, lo studente diciassettenne Elias Canetti si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un’attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927, a Vienna, compiva un ulteriore passo: l’esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incendiato il Palazzo di Giustizia. La polizia sparò: novanta morti. Nelle sue memorie Canetti scriverà, a proposito della massa: «È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è restato tale». Il «qualcosa» a cui qui si allude è Massa e potere, che apparve nel 1960, dopo trentotto anni di elaborazione. Già questi elementi, queste date fanno capire quale immensa energia, concentrazione, furia si sia depositata in queste pagine.
Alla lunghissima genesi dell’opera corrisponde l’estrema singolarità della sua forma. Qui non ci viene semplicemente offerta una nuova teoria da allineare alle tante già esistenti su queste due parole ossessive: massa, potere. Profondamente avverso alla coazione a spiegare, che opprime la nostra cultura, Canetti è qui riuscito nell’impresa di pensare con il massimo della precisione, ma tenendosi sempre «al margine del mondo dei concetti». Questo libro, che si presenta come una severa trattazione scientifica, è ben più di un racconto frastagliato e sanguinoso: è un vasto mito costellato di tanti altri miti, spesso dissepolti con passione da libri dimenticati nell’oscurità delle biblioteche.
Prima di diventare una vistosa caratteristica delle società moderne, la massa è stata, la massa continua ad essere molte altre cose. Per avvicinarci a capirla, bisogna innanzitutto ricordare – come dice un antico testo ebraico – «che non esiste spazio vuoto fra cielo e terra, bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini». La massa è qualcosa di esterno, ma può essere anche interna; è visibile, ma può essere anche invisibile; può uccidere, ma attrae. Massa è in primo luogo quella sterminata dei morti. Massa è il fuoco, il grano, la foresta, la pioggia, la sabbia, il vento, il mare, il denaro. Massa è la «scena psichica» dello schizofrenico. La massa, infine, non può esistere se non come contrappeso, cosmica ’paredra’, di un’altra soverchiante entità: il potere. Alla proliferazione della massa deve rispondere la tenebrosa solitudine del potente. Genghiz khan e il presidente Schreber, il sultano di Delhi e Filippo Maria Visconti spiccano nel loro molteplice delirio sul fondo di masse di sudditi, cadaveri, allucinazioni. Con l’asciuttezza vibrante di un annalista cinese, Canetti ha saldato in un tutto questa immane storia che vive in ciascuno di noi, che è iscritta nei nostri gesti elementari: afferrare, fuggire, spiare, ingoiare. La muta dei cacciatori paleolitici convive e si intreccia per sempre con i dimostranti che incendiano il Palazzo di Giustizia, con il rogo della biblioteca di Kien in Auto da fé. Alla fine riconosciamo come dallo sluagh-ghairm, il grido di battaglia dei morti negli Highlands scozzesi, discenda e si espanda in tutto il mondo un’altra parola: lo slogan.
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"Nessuno ha mai creduto veramente che l'opinione del numero maggiore in una votazione sia, per il predominio di quello, anche la più saggia" Canetti ha impiegato 40 anni per concludere il suo "Massa e potere". ma questo insieme di meditazioni aprioristiche, intendo dapprima enunciate e poi corroborate "a posteriori" da esempi spericolatamente raccolti dall'antropologia spesso di popoli primitivi, meritava veramente lo sforzo? "Soggettivismo e mancanza di metodologia" sentenziava Adorno. E in effetti quella balena di dialettica sistematica che era il filosofo di Francoforte non poteva passare sotto silenzio questi difetti di Canetti. Il quale sceglie di credere ai più improbabili racconti purché calzino col suo discorso: ci dice ad esempio che l'howda degli elefanti del sultano di Delhi trasportava "venti o più guerrieri", trasformando i poveri pachidermi in Tetrapodi Imperiali da Star Wars.... O punteggia il suo saggio con "come poi diremo, come poi vedremo" mentre in realtà poi si vede ben poco. Unica costante che si percepisce nel libro è l'onnipresenza del pensiero di morte, quasi un Todeswunsch. Un libro osannato a mio parere senza essere letto o compreso: ché in caso contrario dovrebbe saltare all'occhio come sia stiracchiato, astorico (le "caratteristiche nazionali" da barzelletta attribuite a inglesi tedeschi ecc.), e denso di affermazioni grottesche, come quella che noi visitiamo i cimiteri per rallegrarci che molti siano deceduti più giovani di noi. Canetti vorrebbe essere Schopenhauer, ma ahimé, non ci riesce.
Canetti è stato modesto con se stesso, come al solito. Questo libro avrebbe potuto intitolarsi a ragione Il libro di una vita o Il libro che attraversa il secolo. Anni di ricerca, letture diversificate, una curiosità divorante e un'immotivata monomania della morte hanno permesso a questo grandissimo autore la stesura di questo libro. Geniali le analisi sul marco tedesco, sulla Germania, sul simbolismo dei popoli, e ancor più entusiasmante è la disamina del caso Schreber. Un libro che rileggerò più volte. Valery classificava i propri libri in base al desiderio che aveva di rileggerli. Questo può dare un'idea di quanto io stimi questo libro e questo autore.
Stritolati e insicuri, affascinati e impotenti, così si esce dalla lettura di questo libro, uno dei decisivi del Novecento. Il temere più di ogni cosa d'essere toccati dall'ignoto (le pagine con cui il libro si apre) viene come a giocarsi in un riflesso beffardo sul lettore, che è come inghiottito dalla prorompenza del testo, dai suoi scorticanti lucidissimi artigli, dalla calma tragica e inattesa che fronteggia il sopravvissuto al panico improvviso mosso da una folla cieca. Si resta sotto le ruote di quest'opera maestosa come in una pura riconoscenza della mente, il dono di quasi un quarantennio che Canetti ha assunto a sacrificio portante della sua vita, della sua ricerca, del suo corpo a corpo con la morte, che egli ha risolto e superato. Nel libro c'è tutto, etnografia, filosofia, sociologia, la lente dell'antropologo e il lampo dell'aforista, il fascino della leggenda e l'urlo della tradizione; ma soprattutto l'astio verso l'impossibilità e le incongruenze di un potere imprendibile, che non può e non potrà mai essere giusto perché è il volto della scoperta fragilità che ha sempre bisogno d'incattivirsi per confermarsi potente, e che trova, a fronte del suo spettro, quello delle masse ancora più fragili, irrisolte, forti e numerose nel loro resistere sotto il cielo. Opera di immensa e meravigliosa irregolarità, cattedrale di preziosità inclassificabile nel novero della saggistica più alta, studio di una vita e summa di uno spirito fra i più geniali del secolo. L'eroe del resto "non affronta solo avversari umani"; questo mi sento di offrire in un commento che sarà appena un sibilo a fronte di quello che Canetti è, è stato e continuerà a meritare. Il mito tradotto in carne, in un capolavoro di spaventosa e folgorante grandezza.
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