I due saggi di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca contenuti in
La mafia non ha vinto rivolgono una serrata critica all'impianto del processo sulla cosiddetta trattativa tra stato e mafia che sarebbe seguita alle stragi mafiose dei primi anni novanta. Da autorevoli studiosi del fenomeno mafioso, gli autori decidono di prendere parte a un dibattito delicato, che vede ampi strati di opinione pubblica al fianco dell'operato dei magistrati palermitani impegnati nell'inchiesta. Le tesi sostenute appaiono dunque fortemente impopolari, ma non potrebbe essere diversamente: uno dei principali obiettivi del lavoro è infatti quello di assumere come oggetto di analisi il ruolo dei diversi soggetti implicati nella ricostruzione dei fatti, la magistratura, l'opinione pubblica, lo stesso sapere accademico. Gli autori si servono così delle vicende relative al processo per discutere le dinamiche che presiedono alla ricostruzione storica di eventi drammatici e alla costruzione sociale di un fenomeno complesso come quello mafioso. Negli anni che seguirono il maxi-processo di Palermo e la strategia terroristica di Cosa nostra, la crescente esposizione mediatica dei magistrati antimafia (la cui azione tendeva sempre più a collocarsi sul confine tra potere politico e giudiziario) aprì la strada per una seria riflessione in tal senso persino da parte dei protagonisti di quella stagione (tra tutti, meritano particolare rilievo le riflessioni di Giuseppe Di Lello,
Giudici, Sellerio, 1994). Se si tiene presente questo quadro, appare forse più chiara l'influenza esercitata dalla dimensione pubblica sulle decisioni dei magistrati palermitani responsabili dell'inchiesta sulla trattativa. La critica mossa dagli autori prende in considerazione i diversi piani implicati dall'indagine: il piano giudiziario, quello storico-politico, quello etico. Le vicende relative al processo divengono un valido spunto per discutere i nodi più controversi della question
e mafiosa: dall'ambiguo legame storico tra l'apparato statale e l'organizzazione Cosa nostra al ruolo cruciale giocato dalla magistratura nella ricostruzione storica di una vicenda dalle implicazioni principalmente politiche. Per Fiandaca, l'indagine sulla trattativa rappresenta "una sorta di metafora emblematica di una serie di complesse, e per certi versi perverse, interazioni tra un uso politicamente antagonistico della giustizia penale, il sistema politico-mediatico e il tentativo di lumeggiare per via giudiziaria vicende oscure e drammatiche della nostra storia recente". Gli autori entrano così nel merito delle vicende relative al processo in corso a Palermo: discutendo l'impianto accusatorio, rilevandone imprecisioni, ambiguità e punti deboli, e inquadrandolo a partire dalle conoscenze storiche maturate sulla relazione tra mafia e apparato statale. Ma al di là delle complesse problematiche giuridiche sollevate dalla decisione dei magistrati palermitani di ricorrere all'articolo 338 del codice penale per contestare agli imputati il reato di "violenza o minaccia a un corpo politico", il libro mira a formulare un giudizio storico-politico dell'intera vicenda: "il contributo dello storico non può ridursi alla facile constatazione che la trattativa tra stato e mafia c'è sempre stata; e non solo perché essa potrebbe comportare l'altrettanto facile previsione che sempre ci sarà. La storiografia deve spiegare
come le cose sono cambiate". La priorità di Lupo appare quella di riproporre la questione del posto occupato dallo stato e dalla mafia nel governo delle società locali interessate dalla presenza di Cosa nostra. Un compito che lo storico non può che assumere in una prospettiva processuale, rilevando le discontinuità che il modello di governance
reale dei territori a forte presenza mafiosa ha subìto nel corso dei decenni, ovvero le vittorie conseguite dal fronte antimafia sia sul piano giudiziario sia in ambito civile e sociale. Allo scopo di riaffermare le ragioni di un garantismo che non ceda a slanci di giustizia emozionale, Fiandaca rileva inoltre i pericoli di un'inchiesta condotta sull'onda dell'affermazione pubblica di un «paradigma vittimario», frutto dell'indignazione collettiva seguita alle stragi del biennio 1992-1993, cui i pm palermitani si fanno carico di dare voce. Potremmo aggiungere che l'inchiesta stessa (così come la sua diffusione pubblica) non è che il prodotto dell'evoluzione di quel paradigma, ovvero della sua sedimentazione: da reazione a caldo a eventi apocalittici come le stragi di quegli anni, esso diviene un consolidato modello interpretativo attraverso il quale leggere le vicende che coinvolgono i gruppi di criminalità organizzata. Fiandaca ricorda poi le pericolose implicazioni, sul piano politico-pubblico prima ancora che su quello giuridico, dell'utilizzo del termine "trattativa" nel definire una serie di ipotesi di reato che vanno dal ricatto all'estorsione, alle minacce di omicidi e stragi, mettendo in guardia il lettore dalle potenziali derive populiste dell'attività "pedagogica" dei magistrati. Va da sé che la presunta trattativa tra stato e mafia non risponde ad alcuna fattispecie di reato penale. L'uso del termine, ricorrente nel dibattito pubblico nazionale fin dal rapimento di Moro, evoca una relazione tutto sommato episodica. Se riferito a Cosa nostra, esso rimanda però a quello che Alessandro Baratta considerò un vero e proprio paradosso, frutto della tendenza del senso comune a privilegiare definizioni ontologiche piuttosto che definizioni relazionali: l'inchiesta assume così la sistematica interlocuzione tra lo stato (nella sua duplice dimensione di stato-apparato e di stato-società) e Cosa nostra come una relazione tra due entità, piuttosto che come un processo costitutivo dello stesso fenomeno mafioso. Ma nonostante una "pregiudiziale propensione dei pm a considerare la trattativa in sè una sorta di crimine sostanziale", quello del consolidato dialogo tra pezzi dello stato e organizzazioni mafiose è un dato rilevato anche dai magistrati autori della
Memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio, riportata in appendice al volume: "Cosa Nostra come è noto non è soltanto un'organizzazione criminale, ma anche e soprattutto un vero e proprio sistema di potere criminale, che fonda la sua forza anche sull'interlocuzione con gli altri poteri, in particolare con quello politico e con quello economico, dai quali trae legittimazione e concreti benefici". Ancora una volta, la magistratura inquirente si inserisce direttamente nel dibattito pubblico attraverso i risultati di un'indagine, proponendo un'analisi di ampio respiro storico e ponendosi, forse per la prima volta in modo sistematico, l'ambizioso obiettivo di fornire un giudizio sulla storia recente di un paese. Punendo chi scende a patti con l'organizzazione mafiosa, l'inchiesta si colloca sul confine tra la stigmatizzazione dei mafiosi e la condanna morale, attraverso lo stesso stigma mafioso, della trama di complicità esterne a Cosa nostra. Al tempo stesso, l'accusa contesta alle due parti l'elaborazione congiunta di un preciso disegno, negando l'occasionalità di questa relazione e gettando le basi perché essa sia acquisita come un dato permanente (la trattativa "c'è sempre stata"). Al di là dei propositi dei suoi autori, il volume costituisce un prezioso documento del costante gioco di rimandi tra i diversi soggetti del fronte antimafia nella definizione (e nella costruzione) dei tratti tipici del fenomeno mafioso. Antonio Vesco