(Ragusa, Dalmazia, 1332 ca - San Miniato, Pisa, 1400) scrittore italiano. Figlio di un mercante fiorentino, esercitò egli stesso la mercatura; rimasto a Firenze dal 1363, ottenne incarichi politici dalla repubblica: fu, tra l’altro, ambasciatore a Bologna (1376), membro degli Otto di balía (1383), priore (1384), podestà e capitano in varie città della Toscana e della Romagna. Uomo pratico, formatosi, piú che nelle scuole, al contatto con ambienti diversi, S. visse in un periodo in cui la grande fioritura letteraria in volgare stava per finire. D’altra parte i limiti del suo orizzonte culturale non gli permettevano di avvertire che quella crisi era legata al sorgere della civiltà umanistica. Tutta la sua produzione poetica tende così a ripetere modelli letterari dell’età precedente: i quattro cantari in ottave nei quali si articola il poemetto La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, composto non molto avanti il 1354, rielaborano in chiave canterina motivi boccacciani; il Libro delle rime, formato da componimenti di varie epoche ordinati secondo una successione rigidamente cronologica, svolgono nei modi più convenzionali la tematica moralistica e quella amorosa (senza rinunciare a una consistente produzione per musica e a significative sperimentazioni comiche che talora preludono felicemente al nonsense burchiellesco).È nelle Sposizioni dei Vangeli, 49 capitoli scritti tra il 1378 e il 1381 in un periodo di lutti familiari e di gravi incertezze politiche, che S. si apre, con l’adozione della prosa, a una forma espressiva nuova, destinata a raggiungere gli esiti più validi nel Trecentonovelle. Ideato forse a Bibbiena nel 1385, il novelliere non poté essere steso materialmente prima del 1392, quando S. era podestà a San Miniato. Come dice il titolo, conteneva 300 novelle, ma i posteri manomisero l’autografo gelosamente custodito dall’autore e 78 novelle andarono perdute, mentre molte altre sono giunte frammentarie. Contrariamente alla tradizione boccaccesca, le novelle non sono iscritte in una cornice, ma si succedono senza nessun ordine che non sia quello della memoria del narratore. Ora brevi, ora lunghe, sono costruite senza apparente preoccupazione letteraria, con una sintassi e un lessico che riflettono il dialogare immediato e vivace di una società popolana e borghese, la sua varia umanità composta di mercanti, artigiani, osti, gabellieri, buffoni, notai, medici, studenti, uomini di città e del contado. Borghesia cittadina e popolo minuto (con qualche raro episodio in cui appaiono personaggi di grande nome, per es. Dante e Giotto) sono i protagonisti della raccolta; a essi però si oppone, in funzione di costante contrappunto che per esprimersi privilegia il «luogo canonico» dei proemi, la coscienza morale sacchettiana. Ne risulta una scrittura che la critica non ha ancora ricondotto a una lettura unitaria e che forse si caratterizza proprio per questa contrapposizione di registri. In essa a una moralità non sempre serena, e però aliena da rigidità, si affianca un comico realismo; e la prosa è schiettamente narrativa, senza preziosità di stile, perfettamente adeguata all’intento di consegnare l’immagine della vita e della società minore del Trecento, proprio nel momento in cui quel mondo e la stessa cultura comunale andavano dissolvendosi nell’aneddotica.