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recensione di Pent, S., L'Indice 1997, n. 5
Siamo d'accordo col dire che la vita, affrontata a muso duro, è una bella avventura. Un fumetto d'autore, nel migliore dei casi, un sogno da rincorrere al galoppo.Ci pare che Ongaro galoppi da sempre alla ricerca di nuovi intrighi esistenziali - sennò che vita è? -, di trappole enigmatico-enigmistiche, di bluff del destino in grado di determinare il come e il quando dell'umano cammino. Dal più romantico "La partita" al cupo e introverso "Interno argentino", lo scrittore veneziano ha puntualmente inseguito se stesso attraverso gli svolazzi improvvisati della sorte, raffinando una dimensione narrativa che, apparentemente priva di connotazioni realistiche in senso spicciolo, possa comunque dare un significato emblematico agli aspetti più tortuosi delle psicologie umane.Tutto questo, occorre sottolinearlo, deliziando e coinvolgendo il lettore con vicende intricate e accattivanti, con uno stile in grado di effettuare poliedriche piroette all'interno di svariate strutture narrative, dal linguaggio finto-ermetico dei fumetti a quello sincopato dell'"hard boiled", dal lirismo classicheggiante al passaggio di consegne del "feuilleton* a puntate. Siamo di fronte a un narratore puro, talmente puro da essere spesso trascurato, in tutto il suo spessore affabulatorio.
Non si smentisce il prode Alberto, anzi ci cattura senza scampo in questo serratissimo, "americanissimo" romanzo di dimensioni internazionali: McBain, Ellroy o altri giallisti d'alto bordo potrebbero qui ben figurare in un'ideale foto di gruppo col nostro romanziere per tutte le latitudini. Si parte dalla morte - chissà quanto "naturale" - dell'illustre regista di origini polacche Stanley Kosinsky, famoso per le sue sventatezze esistenziali. Francesco Varvara, un giovane italiano approdato a Los Angeles sull'onda del mito americano e divenuto biografo di attori e registi, si ritrova tra le mani un dischetto in cui il defunto gli affida tutte le sue confidenze ispiratorie e la traccia di quella che, all'apparenza, potrebbe rivelarsi la sceneggiatura per un film "noir", zeppo di delitti e misteri. Una strage in un bar, figure dai nomi fittizi che sembrano la fotocopia esatta di famosi personaggi di abituale frequentazione della Hollywood che conta. E poi, quella serie di omicidi in diretta televisiva, col fantomatico killer pronto a eclissarsi e le illustri vittime - con un definitivo buco in fronte - alla mercé di milioni di spettatori inorriditi.
Un mistero, reso ancor più intricato dalla fitta rete di connessioni intrecciate dal regista con attori, politici, puttane, poliziotti e scommettitori che popolano il suo racconto. Racconto che s'interrompe nel punto più critico, e lancia Francesco a caccia di una soluzione. Qui Ongaro è un mago nel condurre il lettore - e il suo protagonista - in una dimensione di ricerca "gialla" in cui realtà e finzione si mescolano in un crescendo davvero esaltante, fino alla drammatica, atroce soluzione finale. In verità il testamento di Kosinsky celava fatti realmente accaduti anni prima della sua morte, in un ambiente annoiato, ricco e degradato dove anche la vita può diventare fonte di scommessa. Non sarebbe opportuno rivelare di più, anche perché il romanzo, irto di riferimenti geografici precisi e assillanti, di nomi reali e fasulli, di dialoghi esplosivi e di situazioni intricate a accavallate, si legge con la magica sensazione - a cui ormai siamo un po' disabituati - del puro divertimento. Senza sentirci in colpa, perché a una bella storia divertente e ben scritta bisognerebbe dedicare considerazioni meno elitarie e snobistiche, se è vero - come qualcuno talvolta si azzarda a dire - che l'arte non ha confini né generi. Ongaro, con la sua appartenenza a ogni genere narrativo, è il simbolo di questo modo così casuale, disincantato e virile di ricreare la vita più banale e di farne romanzo, perenne avventura da affrontare in diretta col lettore.
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