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Ananda K. Coomaraswamy è stato l’esempio perfetto di quella fusione fra Oriente e Occidente che tanti hanno invocato e pochissimi sono riusciti ad attuare. In più di mille pubblicazioni, fra il 1904 e il 1947, ha toccato i più svariati temi del pensiero, dei riti, della simbolica e dell’arte occidentali e orientali. Con immensa erudizione, e sempre tenendosi il più possibile vicino ai testi e ai monumenti figurati, ha illuminato i fondamenti della concezione indiana dell’arte, ma anche di quella dell’Occidente medioevale, e individuato le molteplici risonanze dei simboli attraverso il tempo e le civiltà. Il volume che qui si presenta, il primo di una vasta scelta dei suoi scritti più significativi del periodo 1932-1947, quando Coomaraswamy era curatore del celebre dipartimento di arte asiatica al Museum of Fine Arts di Boston, ha al suo centro l’immagine, questo essere dall’ambiguo statuto che appare nell’arte, nel rito, nel racconto, nella vita mentale. Secondo la visione di Coomaraswamy, che non pretende ad alcuna novità ma vuole soltanto ritrovare una verità antichissima, già presente nei più antichi testi indù, l’immagine è innanzitutto «supporto per la contemplazione» – e, se tale suo carattere viene a mancare, per volontà o per incuranza, si rende opaca e nemica. Capire le immagini, tutte le immagini, le più remote e le più quotidiane, l’icona e l’oggetto di uso domestico, è dunque una eminente attività metafisica e l’immagine stessa è una compagna indispensabile sul nostro cammino: «In ultima analisi, il rito, come ad esempio quello dell’antico Sacrificio Vedico, è un procedimento interiore, di cui le forme esterne sono soltanto un supporto, indispensabile per coloro che stanno ancora percorrendo il cammino e ancora non ne sono giunti al termine, ma superfluo per coloro che ne hanno già raggiunto la fine, e che, per quanto possano ancora essere nel mondo, non sono più del mondo. Nel frattempo, non esiste pericolo o ostacolo maggiore dell’iconoclastia prematura di coloro che ancora confondono la propria esistenza con il proprio essere, e che ancora non hanno “conosciuto il Sé”; questi sono la stragrande maggioranza, e per loro il tempio e tutte le sue raffigurazioni servono da indicazioni lungo il cammino».
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