Regista statunitense. Seguendo i frequenti trasferimenti del padre, ingegnere e inventore, studia alla Washington School, e poi alla Todd School di Woodstock. Frequenta quindi i corsi di disegno e pittura al Chicago Art Institute e scrive un piccolo saggio su Nietzsche (come riporta lo studioso J. Naremore), rivelando, a soli sedici anni, altissime doti intellettuali. Poco dopo parte per l'Europa, deciso a trovare uno sbocco professionale alla sua passione per il teatro, già coltivata durante gli studi con la messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare, che gli era valsa un premio universitario a Chicago. Esordisce al Gate Theatre di Dublino, recitando Shakespeare e Goldoni, proponendosi anche come regista in una nuova versione del Giulio Cesare, e persino come disegnatore di scene e di costumi. Al suo rientro negli Stati Uniti, nel 1933 viene scritturato nelle migliori compagnie di New York e di Chicago. Cura poi regie shakespeariane per il Federal Theatre e per il Mercury Theatre. La sua genialità precoce si esprime pienamente alla radio, in particolare nella trasmissione March of Time, in una vastissima gamma di personaggi tratti dal teatro drammatico, ma spesso anche dall'attualità politica, che rivelano una stupefacente padronanza di uno strumento mediatico entrato in gioco da poco più di un paio di decenni. W. ha ventitré anni quando nella stessa trasmissione, il 30 ottobre 1938, manda in onda La guerra dei mondi di H.G. Wells, simulando un'invasione marziana talmente realistica da scatenare un panico collettivo lungo tutta la costa atlantica. La casa di produzione rko si precipita a offrire all'autore di un tale cataclisma un contratto senza precedenti per la realizzazione di un film all'anno, non importa se come attore, sceneggiatore, o regista, oppure tutti e tre i ruoli insieme, in assoluta liberà creativa e produttiva. W. lavora ad alcuni progetti (tra i quali una trasposizione di Cuore di tenebra di J. Conrad), tutti scartati, e finalmente si accinge a realizzare il suo primo film, l'incredibile, straordinario Quarto potere (1941). Gira per tre mesi (con G. Toland alla mdp e con la collaborazione di H.J. Mankiewicz per la sceneggiatura) e ne impiega altri nove per il montaggio, scardinando tutte le rigidissime regole produttive hollywoodiane. Ispirata alla figura del magnate della stampa W.R. Hearst, l'opera risulta alla fine una fiammeggiante, barocca, profonda incursione nella sfera del potere, dove dominano il narcisismo superomistico e il feticismo tirannico del denaro. Non ottiene successo. Divide la critica, che lo detesta oppure lo ama incondizionatamente. Ma con il passare del tempo Quarto potere finisce per essere considerato uno dei maggiori capolavori della storia del cinema (anzi, il massimo capolavoro, secondo un antico vezzo critico di stilare classifiche), un'opera che sconvolge con le sue invenzioni tecnico-stilistiche la struttura del film, fondando al tempo stesso il linguaggio del cinema moderno: uso inedito del piano-sequenza, profondità di campo con relativa utilizzazione del «panfocus» (l'obiettivo grandangolare), riprese dall'alto o dal basso, angoli visuali inauditi (mai nessuno aveva inquadrato i soffitti) ecc. Parte da qui, dall'insuccesso iniziale di Quarto potere, il tormentato cammino di uno dei maggiori geni della settima arte. Il contratto che lo lega alla rko prevede la realizzazione di nove film e la supervisione di altri, tra cui tutti quelli interpretati da lui o dagli attori della sua compagnia del Mercury Theatre. Nel 1942 scrive quindi, insieme con J. Cotten, Terrore sul Mar Nero, diretto da N. Foster (in realtà subentrato dopo il disinteresse di W.), e mette in cantiere un progetto per un film sulla vita dei contadini messicani e dei pescatori brasiliani che dovrebbe chiamarsi It's All True. Nel frattempo gira L'orgoglio degli Amberson (1942), che gli viene bloccato dalla produzione, e che è costretto a rimontare eseguendo forti tagli (ma forse è lui stesso che lo abbandona). Intanto l'impresa di It's All True rimane incompiuta (il «girato» rimarrà chiuso nei magazzini per cinquant'anni, e riapparirà nel 1993, montato sulla base del materiale ritrovato), mentre una certa fama di sregolatezza dissipatoria comincia a circolare intorno al suo nome. Il film successivo, Lo straniero (1946), strutturato secondo la migliore tradizione del noir, giocato sul mistero e su linee d'ombra che restituiscono magistralmente l'ambiguità e lo sdoppiamento psichico di un criminale nazista, viene stravolto dalla produzione, soprattutto nel finale, e W. lo disconosce. Due anni dopo accetta di dirigere R. Hayworth, allora sua moglie (ma già sull'orlo del divorzio), in La signora di Shanghai (1948), adattando un romanzo di S. King senza averlo mai letto e senza «averci mai capito niente» (come lui stesso afferma). In realtà si tratta di un film perfettamente compiuto, denso di riferimenti autobiografici e di intuizioni geniali. La Hayworth viene strapazzata senza pietà da una regia «crudele», nella fosca storia di un marinaio (reduce dalla guerra di Spagna) raggirato e ingannato da un ricco avvocato che lo assume per una crociera sul suo yacht. Lui scopre la manovra tesa alle sue spalle e si sottrae al gioco di massacro che ha per posta il denaro. Il film si chiude con la celeberrima sequenza degli specchi, nella quale l'avvocato e la donna si lanciano l'uno contro l'altra come squali famelici. Nello stesso anno gira Macbeth (1948), una delle grandi opere shakespeariane che conosce meglio per averne realizzato una famosa messa in scena a Harlem nel 1936, in piena atmosfera rooseveltiana (W. è un «radical» democratico, grande sostenitore di Roosevelt), con attori negri e con la trasposizione dell'impianto drammatico in un'ambientazione voodoo. Secondo Naremore, si tratta del «più puro esempio dell'espressionismo americano». E infatti W. enfatizza al massimo le atmosfere cupe, accentuando i giochi di ombre e il contrasto tra il b/n, utilizzando lenti deformanti in funzione scenografica. Tuttavia il centro del film è rappresentato dalla potenza dei piani-sequenza e del loro montaggio contrappuntistico «interno», che rimanda la contemporanea presenza di tre piani paralleli d'azione, con la mdp ferma o al massimo in lento movimento. La recitazione degli attori, squisitamente anti-teatrale, voluta da W., suscita critiche e ne decreta il fallimento commerciale. A Hollywood nessuno investirà più un dollaro su di lui, e il regista sarà costretto a combattere per tutta la vita con i problemi della produzione. Resteranno mai realizzati, o incompiuti, i progetti di Heart of Darkness, It's All True, Dead Reckoning, The Other Side of the Wind, Don Quixote. Nel 1949, per procurarsi il denaro necessario a realizzare un altro grande progetto «shakespeariano», Othello (1952), recita in Cagliostro di G. Ratoff, e in Il principe delle volpi di H. King, non mancando di fornire un'interpretazione eccezionale in Il terzo uomo di C. Reed. Le riprese iniziano lo stesso anno, e si protraggono, frammentate e continuamente interrotte, per quasi tre. Quando finisce i soldi, W. è costretto a partecipare ad altri film (La rosa nera, 1950), a mettere in scena Shakespeare a Londra, a recitare alla radio, a fare da narratore in un cortometraggio, Return to Glenascault. Nel frattempo viaggia per le riprese (quando può) in Marocco, a Roma, Viterbo, Perugia, Venezia. Otello esce dalla sala di montaggio nel 1952, giusto in tempo per essere presentato a Cannes, dove conquista il premio come miglior film (ex aequo con Due soldi di speranza di R. Castellani). André Bazin si stupisce per la sua struttura stilistica, fatta di piani veloci, campi e controcampi così lontani dai piani lunghi tipicamente wellesiani: il film è infatti una specie di summa teorica del montaggio, che in nulla cede al miglior Eisenstein. Comunque sia, la forza espressiva dell'opera ne esce ingigantita. Quel funerale che apre e chiude il film, teoria di figure in controluce e in campo lungo che accompagnano le spoglie di Otello e Desdemona al canto del «Dies Irae». Quel giro di scale, chiostri, cortili, di sapore fortemente espressionista. Quelle inquadrature anticonvenzionali, quei primi piani incombenti Un fascino visionario e quasi ipnotico. Passano tre anni prima che W. possa realizzare un altro film, Rapporto confidenziale (conosciuto anche con il suo titolo originale, Mister Arkadin, 1955), uno dei suoi tanti colpi di genio, tratto da un romanzo-sceneggiatura scritto da lui stesso ispirandosi alla vicenda di un famoso avventuriero realmente esistito. Un film dall'andamento quasi «biblico», una sorta di moderna allegoria della «crudeltà» del potere. Arkadin è un gigante della finanza internazionale. In realtà ha un passato da cancellare (tratta delle bianche) e per questo deve eliminare molti di coloro che lo hanno fiancheggiato nei suoi loschi traffici. Capita a proposito un certo Van Stratten, un giovanotto dalla moralità duttile che si illude di mettere in scacco il diabolico finanziere. Questi lo ospita regalmente nel suo castello spagnolo e poi porta il suo affondo: gli chiede di svolgere un'inchiesta del tutto riservata sul proprio passato, fingendo un blocco di memoria. Van Stratten accetta l'incarico, senza rendersi conto che lo scopo reale del finto smemorato è di scovare tutti gli ex soci per poterli eliminare, e che alla fine toccherà proprio a lui, all'ingenuo, che però si sveglia di colpo e riesce a fuggire, rivelando alla figlia dell'infido avventuriero che razza di uomo sia il padre. Non sopportando l'idea che la figlia abbia saputo tutto del suo passato, Arkadin si lascia schiantare al suolo con il suo aereo. Alla fine si apprende che il suo corpo non sarà ritrovato. Ma Arkadin è morto davvero? Con W., infaticabile depistatore, non si può dire. Nel suo cinema l'«eterno ritorno» è sempre in agguato. Arkadin è un personaggio non solo diabolico, ma anche carico di doppiezza e di mistero. È una figura che rimanda emblematicamente l'incondizionato situarsi del potere e della ricchezza «al di là del bene e del male». W., nelle vesti di Arkadin, giganteggia letteralmente. Spesso inquadrato dal basso, incombe espressionisticamente, circondato da una galleria di comprimari grotteschi, e appare come una sorta di trasfigurazione del dispotismo moderno. Rapporto confidenziale è il film che comincia a confondere le idee alla critica. Brillante, immaginifico, penetrante, magnetico, W. è uno dei non molti autori di cinema a possedere grandi capacità di scrittura, tanto da sceneggiare quasi tutti i suoi film. È ancora Naremore a sostenere che alla fine l'opera wellesiana «sfugge a ogni conclusione». In effetti nel cinema di W. la potenza espressiva, l'invenzione stilistica e l'innovazione narrativa si fondono con i grandi frammenti della cultura moderna e vanno a comporre un mosaico, anzi, un labirinto inestricabile e forse irripetibile. Vi confluiscono non solo Shakespeare, la letteratura e l'arte del Novecento, una certa eredità espressionista, echi brechtiani, un gusto musicale raffinato, e naturalmente una gigantesca cultura cinematografica, ma anche segmenti di sapere scientifico e di pensiero filosofico, Nietzsche in particolare. Bazin è il primo a cogliere nel cinema di W. la pregnanza molto nietzschiana di figure che confliggono violentemente fino all'annientamento, e che incarnano simbolicamente le antinomie di uno stesso soggetto: il mondo borghese nella sua schizofrenia e nella sua parabola storica. Nel 1958, realizzando un ennesimo capolavoro, L'infernale Quinlan, W. fornisce un'altra tessera del «puzzle» ineffabile costruito dal suo cinema, mettendo in scena la figura crudele, laida, quasi satanica, di un poliziotto corrotto, che in realtà rappresenta quasi una metafora nichilista del potere assoluto. L'opera, tra l'altro, si apre con un piano-sequenza straordinario e giustamente famoso, divenuto rapidamente un paradigma del cinema moderno. Don Chisciotte, che W. tenta di realizzare nel 1960, rimane incompiuto. Il film doveva essere interpretato da F. Riguera, nella parte di Don Chisciotte, e da A. Tamiroff, in quella di Sancho. W. gira una massa ingente di materiale, accantonato e poi ripreso lungo l'arco di quattordici anni, e poi lasciato definitivamente a un amico romano. Molti anni dopo, il materiale viene rimontato in Spagna seguendo gli appunti di W. e presentato al Festival di Cannes nel 1992 (in una copia in verità quasi invisibile, talmente le immagini sono deteriorate dal tempo). Don Chisciotte non è certo l'unico suo progetto che rimane incompiuto, ma è sicuramente quello cui il regista rimane avvinghiato per tutta la vita, quello che più lo tormenta e al quale non ha mai rinunciato. W. riesce invece a realizzare un altro progetto, ambizioso fino alla vertigine, quello di trasporre sullo schermo uno dei libri più cruciali di tutta la letteratura del Novecento, Il processo di F. Kafka. Dichiarerà più avanti che Il processo (1962) rappresenta sicuramente il film più importante, l'esperienza più libera e completa di tutta la sua carriera – forse più di Quarto potere. Il famoso romanzo di Kafka nelle mani di W. si sviluppa in un'allucinante e lugubre sequenza di visioni «realistiche» che scoperchiano il lato assurdo e mostruoso della macchina del potere. La sua regia aggiorna l'affresco kafkiano mantenendone intatto lo spirito, lo ricostruisce incastonandolo nell'era della tecnica avanzata, facendo ampiamente ricorso, sul piano drammatico, alla lezione brechtiana, e sul piano squisitamente filmico, a quella espressionista. Il film successivo, Falstaff (1965), arriva solo tre anni dopo. Qualche critico lo considera il capolavoro della maturità, e lo mette al vertice dell'opera wellesiana. Si tratta di un film pieno di brio, certo un divertissement dalle tonalità splendide, al centro del quale si trova un personaggio, Falstaff, lurido e buffonesco, che è una sorta di resumé di personaggi shakespeariani. Ma in realtà appare costruito su un registro più attenuato rispetto allo standard wellesiano. Un gioiello sfolgorante è invece il film che segue, Storia immortale (1968), un mediometraggio tratto da un racconto di K. Blixen. Un'opera che si presenta come una sintesi di tutti i temi e le figure del cinema wellesiano, dove il colore gioca un ruolo espressivo di rara potenza, e i personaggi (W. stesso, ma anche una inarrivabile J. Moreau) si caricano di sfumature indecifrabili, ambigue, malinconiche, dolenti. W. non riesce a portare a termine l'opera successiva, The Deep o Dead Reckoning (L'oceano, o Corpo morto, 1970) e torna alla mdp solo per girare lo splendido F come falso - Verità e menzogne (1975). È un film sui travestimenti, sui trucchi, sul falso e sulla doppiezza. Vanno in scena, in parallelo, la vicenda di un falsario rifugiatosi a Ibiza per sfuggire alla giustizia, e quella di un giornalista americano che si dichiara in possesso dell'autobiogafia manoscritta del famoso miliardario Howard Hughes, smentita da quest'ultimo, ma rivelatasi autentica dopo una perizia calligrafica. Con un montaggio incalzante, W. intreccia con queste due storie giochi di prestigio, trucchi eseguiti in prima persona e frammenti della propria vita, in particolare la colossale bugia grazie alla quale è diventato un attore shakespeariano in Europa. Nel profondo, il film si presenta come una ficcante riflessione sul rapporto tra l'arte e la vita. Sfumano i confini tra vero e falso. L'arte è finzione, ma il cinema lo è a maggior ragione. E il regista non è altro che l'illusionista che compie giochi di prestigio di fronte agli occhi incantati dei bambini. F come Falso è l'ultima opera compiuta di W. Il progetto di The Other Side of the Wind (L'altra faccia del vento, 1974) fallisce. Non riuscirà a realizzare altro, se non un documentario, Filming Othello (Girando Otello, 1978). Muore nel 1985, alla macchina da scrivere, mentre sta lavorando a una delle tante sceneggiature mai realizzate. Il giorno della sua morte, scrive J.Rosenbaum, «nella sua patria suonava solo un ritornello: il suo peso, e lo spettro del fallimento, come se questi due cicli si “spiegassero” e si giustificassero reciprocamente». (el)