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recensione di Neri, D., L'Indice 1998, n.11
David Lamb è uno studioso già noto ai lettori italiani interessati alla bioetica, per due libri sul tema trapianti tradotti dal Mulino nel 1987 ("I confini della vita. Morte cerebrale ed etica dei trapianti") e nel 1995 ("Etica e trapianto degli organi"). Sempre per i tipi del Mulino, esce ora "L'etica alle frontiere della vita". Il libro si inserisce in un dibattito, quello sulle decisioni mediche relative alla fine della vita umana, che anche in Italia, almeno negli ultimi anni, si è andato sviluppando, ma che resta tuttavia ancora fermo alle grandi questioni (eutanasia sì / eutanasia no), mentre poca attenzione analitica viene riservata al complesso delle questioni concrete che concernono il trattamento dei malati in situazioni critiche, che sono invece quelle cui il libro di Lamb è dedicato.
La nozione che sta al centro del libro è quella di "futilità" dei trattamenti, nozione non meno controversa e di difficile definizione di quella cui si preferisce ricorrere nei paesi latini, ossia quella di "accanimento terapeutico".Sebbene non completamente sovrapponibili, le due espressioni indicano la stessa cosa: è "futile", o costituisce "accanimento", ogni trattamento dal quale non ci si possa attendere un beneficio fisiologico per il paziente o un miglioramento della qualità della sua vita. Questa è la definizione che di "accanimento terapeutico" viene data nel Codice italiano di deontologia medica, ed è veramente stra-no che, in un articolo a firma di M. Cecchetti ("Avvenire", 23 settembre 1998) il libro di Lamb (ma non il Codice italiano) venga attaccato per avere sostenuto questa tesi, inopinatamente dichiarata essere l'anticamera dell'eutanasia.
In realtà, lo scopo del libro di Lamb è esattamente l'opposto: la sua idea, infatti, è che se si riesce a dar corpo alla nozione di futilità in modo da poter realizzare un principio (quello di evitare l'accanimento terapeutico) sulla cui moralità c'è ormai - giova ripeterlo - un accordo pressoché unanime, viene tolto spazio alla rivendicazione dell'eutanasia alla quale Lamb, e non da ora, è fieramente contrario.
Ma come realizzare questo obiettivo? L'idea di Lamb (che per la verità non è nuova, né originale) è che dovremmo cominciare a pensare che i casi di non inizio, o interruzione, dei trattamenti di sostegno vitale costituiscono un normale esercizio di pratica medica, da far rientrare nell'ambito delle decisioni che ogni medico dovrebbe poter assumere nell'interesse del paziente. Poiché tuttavia nella medicina moderna la capacità decisionale del medico è stata fortemente limitata (almeno in teoria, c'è da aggiungere) dall'introduzione del principio di autonomia del paziente, l'ampliamento del potere decisionale del medico richiede un ridimensionamento dell'autonomia del paziente. Lamb chiama ciò "paternalismo moderato" e lo definisce come la teoria secondo la quale "si riconoscono i medici come agenti morali la cui perizia professionale è necessariamente permeata di valori morali, e tali valori devono venir posti sullo stesso piano del rispetto della dignità e dell'autonomia del paziente". Il problema con questa tesi è duplice. In primo luogo, il principio del rispetto dell'autonomia del paziente non è stato introdotto per negare l'autonomia del medico, ma solo per tentare di bilanciare una situazione fortemente sbilanciata, nella quale prendeva corpo la domanda che faceva da titolo a un film di qualche anno fa: di chi è, alla fin fine, la mia vita? In secondo luogo, ciò che oggi viene lamentato è, in realtà, che il riconoscimento dell'autonomia del paziente sia, tutto sommato, rimasto ancora sulla carta, non abbia cioè ancora permeato di sé la pratica medica (basti pensare alle difficoltà di introdurre il consenso informato in un modo che non si riduca alla firma di modulo).In queste condizioni, far passare l'idea che occorre dar spazio all'autorevolezza morale del medico e ampliare il suo potere decisionale significa semplicemente ridare fiato al vecchio paternalismo "tout court".
Si diceva prima che Lamb è nettamente contrario all'eutanasia. Anche qui, per la verità, non c'è molto di nuovo, almeno rispetto allo stato del dibattito a livello mondiale, ricco ormai di libri che avrebbero meritato, molto più di questo di Lamb, di essere tradotti. Va invece segnalata qualche netta caduta di stile quando Lamb esamina il caso dei Paesi Bassi.Lamb, ad esempio, ricorda le affermazioni "dell'associazione medica olandese" circa i risparmi nell'assistenza che si potrebbero ottenere dalla pratica dell'eutanasia. Lasciamo stare l'insinuazione, peraltro infondata; il fatto importante è che non si capisce bene a quale associazione Lamb si riferisca, dal momento che nei Paesi Bassi esistono due associazioni mediche: la Royal Ducht Medical Association, che raccoglie la stragrande maggioranza dei medici olandesi, ed è favorevole all'eutanasia, e la Ducht Doctors Association, che è contraria all'eutanasia. Alla fine della sua analisi, poi, Lamb ricava il seguente insegnamento: "laddove vi siano un clima favorevole all'opportunità di eliminare le persone sgradite o di peso, e una proporzione considerevole di soggetti influenti (i medici in particolare) preposti ad applicare un programma di morte, è altamente probabile che si continui a scivolare lungo un percorso che porta all'uccisione di persone che non hanno affatto chiesto di morire". Ora, l'esperienza olandese è stata criticata sotto molti aspetti, ma neppure i critici più accaniti sono giunti a fare affermazioni come quelle di Lamb, che denotano solo una grande ignoranza della storia e della cultura del popolo olandese.
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