(Firenze 1483 - Santa Margherita in Montici, Arcetri, 1540) storico italiano.La vita Dopo aver esercitato l’avvocatura in varie province toscane, nel 1512 iniziò la carriera politica come ambasciatore della repubblica fiorentina presso Ferdinando il Cattolico: frutto di quell’esperienza furono il Diario di Spagna (1512) e la Relazione di Spagna (1514). Restaurata la signoria medicea, la sua ascesa fu rapidissima: Leone X (Giovanni de’ Medici) lo nominò governatore di Modena (1516) e poi di Reggio e Parma (1517-22); Clemente VII, dopo averlo chiamato alla presidenza della Romagna (1523-26), lo volle luogotenente generale delle truppe pontificie. In tale veste, di fronte alla minaccia di Carlo V, G. propugnò una lega tra gli stati italiani, il papa e il re di Francia, e a Cognac, nel 1526, vide coronati da successo i suoi sforzi. Ma la lega fu sconfitta, Roma fu saccheggiata dalle truppe imperiali (1527), a Firenze venne instaurata la terza e ultima repubblica. Sospettato dai concittadini per essersi adoperato in favore dei Medici, G. si rifugiò per qualche tempo nella sua villa di Finocchieto, presso Firenze, dove, a difesa del suo operato, scrisse nel 1527 la lettera Consolatoria, l’Oratio accusatoria e l’incompiuta Oratio defensoria. Tornati i Medici, nel 1531, fu scelto dal duca Alessandro come suo consigliere e luogotenente. Ben diversamente si comportò il successore, il giovane Cosimo, che gli fece intendere di non gradire i suoi servigi. Amareggiato, G. si ritirò in campagna dove, fra Santa Margherita in Montici e Poppiano, trascorse gli ultimi anni, attendendo alla composizione della Storia d’Italia.Il pensiero politico Testimone della crisi che segnò la decadenza dei principati italiani, G. rinunciò a un’organica sistemazione del suo pensiero politico. Tuttavia, nelle oltre duecento tra massime, sentenze e osservazioni di straordinaria finezza psicologica che compongono il suggestivo libro dei Ricordi (di cui restano ben cinque redazioni, dalla prima del 1512 a quella definitiva del 1530), fissò alcuni punti essenziali della sua visione della realtà. Come Machiavelli, G. è convinto che il ritmo della realtà sia immutabile e che le variazioni avvengano soltanto in superficie; ma, proprio perché le leggi della natura sono imperscrutabili e il senso profondo del procedere della storia sembra sfuggire a ogni analisi, è necessario limitarsi a osservare e sorvegliare i mutamenti di superficie: compito che richiede il «buon occhio del saggio», il quale, se vuole salvaguardare il suo interesse «particulare» e il suo «decoro», dovrà affidarsi alla «discrezione», cioè a una facoltà di discernimento che, di volta in volta, gli consenta di cogliere l’aspetto caratteristico di ogni situazione e di adattare a esso la propria condotta. Tali doti devono essere preminenti nell’uomo politico, al quale compete il difficile controllo del complesso, mutevole gioco delle forze politiche; mentre non è realistico pretendere in lui l’eroico spirito di sacrificio (nell’operare il male per il conseguimento del bene pubblico) ipotizzato, utopisticamente, da Machiavelli.L’opera storiografica Questo concetto realistico e relativistico della storia, fondamentalmente scettico nei confronti dell’uomo e della sua capacità di intervento sulla realtà, affiora in tutti gli scritti di G.: sia in quelli politici (dal giovanile Discorso di Logrogno, 1512, al dialogo Del reggimento di Firenze e alle Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio, 1528), sia in quelli storiografici (dalle incompiute Storie fiorentine, 1508-10, a Le cose fiorentine, pubblicate soltanto nel 1945, e alla monumentale Storia d’Italia). Già fondate su un pragmatismo rigoroso, che esclude qualsiasi possibilità di indicare modelli di governo al di fuori e al di sopra delle contingenti situazioni politiche, Le cose fiorentine, iniziate intorno al 1528, furono portate avanti con stanchezza per qualche anno e poi abbandonate nel 1531. Gli eventi incalzavano e l’impostazione del lavoro non soddisfaceva più l’autore, conscio che la crisi aveva proporzioni ben più vaste di quelle dibattute nella sua piccola storia. Nacque così l’idea della Storia d’Italia, la cui stesura, portata a termine in soli tre anni (dal 1537 al 1540), fu preceduta da un paziente lavoro di raccolta di materiale.Dopo lunghe manipolazioni di contenuto e di forma, l’opera risultò, nella redazione finale in 20 libri, la prima storia italiana di respiro nazionale e, più che nazionale, europeo, intesa a ripercorrere un’età di crisi e, soprattutto, a cercare di individuare le cause di quella crisi. Essa infatti abbraccia uno dei periodi più travagliati della storia della penisola, gli anni 1494-1534, che videro la calata di Carlo VIII, parte della lunga lotta tra Francia e Spagna, cioè l’invasione di Luigi XII (1499-1514) e il periodo della prima e della seconda guerra tra Francesco I e Carlo V, fino alla morte del papa Clemente VII e all’elezione di Paolo III Farnese; un quarantennio che G. contrappone, con felice e costante effetto tonale, agli anni dell’equilibrio imposto e garantito dal Magnifico (e che il G. delle Storie fiorentine aveva condannato come «tirannide»!). Del suo capolavoro G. curò scrupolosamente anche la forma: si sa che, per correggere ripetutamente il testo, fece uno spoglio completo delle Prose della volgar lingua di P. Bembo e chiese consigli ad amici dotti. Anche da questo tormentoso lavorio nasce, forse, la tipica gravità del periodare guicciardiniano. Ma lo stile della Storia dipende, essenzialmente, dal metodo di lavoro dello storico, che tante volte interveniva su un periodo già costruito, completandolo e dandogli movimento coll’inserimento di altre notizie particolari e nuovi dati di fatto o chiarimenti. Questo suo formidabile impegno espressivo comportava l’assunto di risolvere tutto nell’«azione»: rispetto alle Storie fiorentine, le descrizioni di battaglie, nella Storia, sono più frequenti e più ampie; i personaggi perdono l’astrattezza e l’impersonalità del ritratto per presentarsi come uomini in azione, studiati con acuta psicologia nella varietà e nel succedersi dei loro sentimenti e pensieri. Esempi di «controtendenza», di adeguamento cioè ai canoni della storiografia umanistica, sembrano essere, invece, le numerose orazioni inserite nel corso della narrazione; ma le migliori di esse superano la retorica e l’ampollosità declamatoria e risultano finalizzate a una visione più articolata, e ricca di punti di vista alternativi rispetto alla ricostruzione «oggettiva» degli episodi.