Regista e sceneggiatore francese. Inizia a dirigere spot pubblicitari alla fine degli anni ’60. Il suo primo film Bianco e nero a colori (1976), ispirato alle esperienze vissute in prima persona nell’esercito francese nell’ex colonia del Camerun, ottiene il premio Oscar come migliore film straniero. Dopo Hot Head (1979), con La guerra del fuoco (1981) consolida la sua fama di autore eccentrico raccontando una visionaria avventura preistorica. Dirige poi l’adattamento del bestseller di U. Eco Il nome della rosa (1986), miliardaria superproduzione paneuropea che ratifica il suo prestigio. Nel 1988 è la volta di L’orso, uno strano esperimento narrativo in cui si racconta, necessariamente senza parole, l’amicizia tra due animali. Ancora un brusco capovolgimento nel 1991, con L’amante, sensuale storia d’amore scritta da M. Duras e tradotta in un manieristico e scontato soft-core. Segue il successo internazionale di Sette anni in Tibet (1997), l’avventura di due alpinisti austriaci che, unici stranieri nella città santa di Lhasa, si avvicinano al Dalai Lama cambiando per sempre la loro vita. Se il successivo Il nemico alle porte (2001) è un fiacco tentativo di girare in chiave epica l’assedio nazista di Stalingrado del 1942, A. ritrova invece un soggetto più consono alle sue corde espressive con Due fratelli (2004), che mescola il genere zoofilo con quello esotico per narrare l’avventura di due tigrotti selvaggi sullo sfondo coloniale della regione del Mekong, in Cambogia, negli anni della dominazione francese. Regista sempre in bilico fra lirismo dell’immagine e cadute di tono, fra gigantismo espressivo e sperimentazione ad alto budget, A. è riuscito nel tempo a costruirsi una reputazione internazionale d’autore dotato di notevole talento visivo, ma non sempre riesce a evitare la retorica magniloquente del kolossal, né a schivare un estetismo da rivista patinata.