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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2014
Sconfinato il dibattito settecentesco sulla felicità, questa "grande parola che risuona lungo tutto il secolo e in tutti i paesi", come ha scritto Luciano Guerci nel suo insuperato profilo del Settecento europeo (L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Utet, 1988 e successive edizioni). Risuona con due varianti: l'una senza altra specificazione che non sia quella del sostantivo, felicità e basta; l'altra, più frequente, viaggia in stretta compagnia di quell'aggettivo, "pubblica", che l'ha investita di senso politico e culturale e l'ha legata intimamente al gran secolo dei Lumi. Pubblica felicità risulta una sorta di motto emblematico e simbolico che riecheggia a ogni passo della pubblicistica settecentesca, portandosi appresso significati tanto differenti da legittimare alla fine quella definizione neutra e per ciò stesso universale che ne diede Bentham coniando la celebre formula: "L'azione che procurerà la massima felicità al maggior numero di uomini".
Vi sono due ambiti storiografici nei quali l'uso della locuzione è maggiormente attestato dalla ricerca e trova tali e tanti riscontri nei documenti da giustificare l'idea che essa costituisca una spia sensibile del mutato orizzonte politico e culturale del secolo. Il primo connette la pubblica felicità alla sfera dell'agire politico, fissando lo sguardo alla stagione in cui diverse monarchie europee misero in atto una serie di riforme volte a incentivare la crescita economica, risanare le finanze, favorire lo sviluppo della società civile. Le riforme dei sovrani un tempo detti illuminati esprimerebbero, secondo tale prospettiva, un'idea nuova dello stato che, sollecito del benessere dei sudditi, promuove appunto la pubblica felicità. In tale ambito la felicità appartiene al dominio dell'azione politica e la si rintraccia principalmente in quelle realtà meno aperte alla critica radicale dei fondamenti culturali dell'Europa e maggiormente vincolate all'egemonia della chiesa. Gli stati italiani, in primo luogo. Il rimando va immediatamente al trattato di Muratori Della pubblica felicità, oggetto dei buoni prìncipi del 1749 (una riedizione è stata curata nel 1996 da Cesare Mozzarelli per l'editore Donzelli), che è stato letto come il prontuario di un riformismo possibile nei paesi cattolici, il punto massimo di accordo tra un cattolicesimo ragionevole e le esigenze degli stati moderni.
Vi è un secondo campo nel quale dilaga la locuzione, ed è quello della discussione morale, politica, storiografica che visse la stagione dei Lumi. In questo quadro pubblica felicità o più speso felicità senza aggettivi delimitanti si connota come costruzione di una coscienza laica, inno alla libertà, programma per l'avanzamento dell'umanità e via discorrendo, attraversando un ventaglio di critiche alle storture del passato e di proposte per un futuro migliore che si esercitarono su così diverse e divergenti prospettive da far smarrire lo stesso filo unificante evocato dall'idea di felicità. Tante sono le felicità quante le direzioni dell'Illuminismo. La ricerca della felicità viene spesso affidata alla dimensione storica, nella quale il passato si carica di valenze negative apparendo il regno dell'oscurità e della barbarie, mentre il futuro acquisisce un segno positivo quale dimensione possibile e auspicabile del progresso che rimuoverà ostacoli formidabili, causa delle sofferenze a lungo patite dagli individui. Se la sofferenza è sudditanza alle tradizioni inique, alle nefandezze ereditate dal trionfo della superstizione e dell'ignoranza, il dischiudersi di un futuro di felicità privata e pubblica fa appello alla coscienza critica, ossia al dominio che gli illuministi cercano di rivendicare e di conquistare.
Di questo complesso e labirintico percorso il libro di Trampus ricostruisce un filo di orientamento misurandosi con una storiografica oceanica. I suoi studi sul grande intellettuale meridionale Antonio Genovesi sono stati sicuramente l'innesco per rileggere una discussione di tale portata. La strada scelta è stata quella di portare a un largo pubblico i temi e le prospettive, costruendo un racconto che cerca l'immediatezza e anche la complicità tra scrittore e lettore (ad esempio, con un insistito uso del tempo presente), che porta problemi anche complessi a un punto di mediazione possibile. Le discussioni suscitate dalle opere di Hutcheson, di Muratori e di Maupertuis offrono le nervature di un libro perlomeno anomalo nel campo della storiografia italiana proprio per quel suo carattere di sintesi divulgativa condotta intorno a una discussione di così ampio spettro, a un'idea cruciale e enigmatica al contempo, rispetto alla quale ambisce a costruire una mappa di orientamento, affrontando tanti terreni, dalla religione alla morale, dalla politica alla storia, e misurandosi con il pensiero utopico, con i miti del buon selvaggio, con le accelerazioni e le nuove dislocazioni indotte dalle due esperienze rivoluzionarie, quella americana, che codifica il diritto alla felicità, e quella francese, con i loro echi che percorsero gran parte della penisola italiana.
Dino Carpanetto
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