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Quel “Dakar ’18” che fa bella mostra di sé nel titolo dell’opera è a dir poco illusorio. Meglio chiarirlo subito: qui Dakar ce n’è davvero poca, per lo più compressa negli aridi bollettini di fine tappa, quasi fosse un mezzo fastidio, un dente da tirar via alla svelta. Nelle ambizioni degli autori, Piero Batini e Franco Acerbis (creatore del leggendario Incas Rally), doveva certamente esserci l’idea di un coraggioso esperimento: scrivere un libro di viaggio tra Perù, Bolivia e Argentina, sfruttando la scusa della Dakar, le tracce della corsa. La mia sentenza al riguardo è però senza appello. Questa prova letteraria è un’occasione sprecata, un libro deludente, privo del giusto equilibrio tra i due elementi che dovrebbero comporlo: l’esperienza intima, quasi egoistica del viaggiatore, e l’odissea collettiva della competizione. Al netto di una penna a tratti formidabile e di un ritmo incalzante, sincopato come un ottimo brano di musica jazz, è impossibile nascondere la sensazione di avere a che fare con una specie di diario personale teso più a saziare l’ego degli autori che non le legittime aspettative dei lettori. Si ha quasi l’impressione che Batini e Acerbis abbiano visto talmente tanti rally raid in vita loro (almeno questo è certo!) da trovare tutto sommato tediosa l’idea di raccontarne un altro, l’ennesimo. Ma se già alla terza pagina ci viene detto che “la quarantesima edizione della Dakar è stata grande e storicamente eccellente”, allora non si capisce perché, a parte brevissimi guizzi, il suo racconto sia rimasto così marginale, periferico, per l’intera durata del saggio.
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