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Anno edizione: 2019
Anno edizione: 2021
Anno edizione:
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Finalista al premio Viareggio-Rèpaci 2020, sezione Narrativa
Lo sguardo degli altri è la nostra ossessione, la nostra gratificazione, la misura della nostra inadeguatezza. Siamo disposti a perderci, curvando la vita intera, pur di somigliare al nostro profilo migliore. È allora che diventiamo pericolosi: quando diamo il meglio, ben sapendo che il peggio si nasconde poco lontano.
«Non tolleravo niente che mi mettesse di fronte al fatto di non essere perfetto»
Pietro vive con Teresa un amore tempestoso. Dopo l'ennesimo litigio, a lei viene un'idea: raccontami qualcosa che non hai mai detto a nessuno – gli propone –, raccontami la cosa di cui ti vergogni di piú, e io farò altrettanto. Cosí rimarremo uniti per sempre. Si lasceranno, naturalmente, poco dopo. Ma una relazione finita è spesso la miccia per quella successiva, soprattutto per chi ha bisogno di conferme. Cosí, quando Pietro incontra Nadia, s'innamora all'istante della sua ritrosia, della sua morbidezza dopo tanti spigoli. Pochi giorni prima delle nozze, però, Teresa magicamente ricompare. E con lei l'ombra di quello che si sono confessati a vicenda, quasi un avvertimento: «Attento a te». Da quel momento in poi la confidenza che si sono scambiati lo seguirà minacciosa: la buona volontà poggia sulla cattiva coscienza, e Pietro non potrà mai piú dimenticarlo. Anche perché Teresa si riaffaccia sempre, puntualmente, davanti a ogni bivio esistenziale. O è lui che continua a cercarla? Dopo il successo internazionale di Lacci e Scherzetto , Domenico Starnone aggiunge una pagina potente al suo lavoro di scavo sull'ambivalenza delle persone e delle relazioni. Con uno sguardo insieme complice e distaccato, e la leggerezza lancinante che possiedono soltanto le grandi narrazioni, ci racconta di un uomo inadeguato a se stesso e alle proprie ambizioni. Ma in realtà ci racconta di noi, di quanto sismico sia il terreno su cui si regge la costruzione della nostra identità.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un bellissimo romanzo scritto in un italiano perfetto. E in tutto ciò intrattiene pure. Avrei voluto fosse più lungo.
Romanzo breve ricco di spunti interessanti che poteva esplodere in qualcosa di più corposo e articolato, qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere. Starnone comunque sempre un piacere
Leggere Starnone è farsi un vero è proprio regalo. Ha un modo di scrivere talmente bello che è impossibile non immedesimarsi e sentirsi parte attiva della storia!!!!!
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
C’è una frase che mi viene in mente leggendo Confidenza, ma attendete un poco. A me è venuta in mente a lettura ultimata, prima ci sono altre cose di cui parlare.
C’è un professore. Si chiama Pietro e non si è mai piaciuto. È un insegnante meticoloso, che prepara le lezioni e che corregge i compiti prima di andare a scuola. Pietro, dopotutto, potrebbe sembrare un uomo comune tra tanti.
Poi c’è una alunna. Teresa è estrosa, schietta, diretta e intelligente. Così intelligente che il suo sguardo acuto si rivela un binocolo preziosissimo per il lettore. È lei che sprofonderà nel cuore dei personaggi che si incontrano nel romanzo.
Lui il professore e lei una sua studentessa. Poi la scuola finisce e Teresa esige che Pietro diventi suo. Ma non ci vuole tanto perché lei si accorga che Pietro è una calamita. Una calamita pericolosa che risucchia stima e affetto. E quando lo capisce decide che è arrivato il momento di lasciarlo. Non prima di aver fatto un’ultima cosa.
Facciamo che io ti racconto un mio segreto così orribile che nemmeno tra me e me ho mai provato a raccontarmelo, e tu però me ne devi confidare uno equivalente, qualcosa che se si sapesse ti distruggerebbe per sempre.
Come la trappola nella quale Pietro rimane invischiato, le parole di Starnone scavano pericolosamente dentro di noi, risvegliando mostri che dovrebbero rimanere assopiti. E mentre i nostri mostri si risvegliano, quelli di Pietro si chetano, nascosti dietro una spirale di perfezionismo che cresce sempre più.
Con Nadia, pensai, chissà quanto tempo sarò costretto a perdere per nascondermi […] così il nostro rapporto, la famiglia che abbiamo creato; con Teresa non c’è da perder tempo, sappiamo di noi già molto più di quanto in genere è lecito sapere.
Pietro non è il solo che si nasconde. Lui lo fa nell’abbaglio della fortuna e della stima, il lettore lo fa dietro l’inchiostro delle pagine. Starnone sa esattamente quali parole usare per turbarci senza farci sentire chiamati in causa; più la fortuna di Pietro risplende, più il lettore avverte l’abbaglio di una luce fredda dietro la quale è lecito nascondersi.
Eppure, anche distanti, non se ne può fare a meno. Di girare un’altra pagina. Di sapere a che bassezza può arrivare un uomo che agli occhi degli altri è semplicemente perfetto.
Starnone si muove con destrezza negli angoli bui di Pietro, provando a dar loro una forma, studiandoli, esaminandoli, agghiacciando il lettore per la sua precisione. Chi non si rivede nel sentimento di inadeguatezza di Pietro? Chi non è scalfito da quel senso di vergogna che Pietro si trascina dietro a fatica? Chi non anela al successo?
Abbiamo parlato a sufficienza. Emerge ora, prepotente, la frase che ho pensato a fine lettura. Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi, ha detto Kafka. Ecco, credo che quest’immagine rispecchi perfettamente quest’ultimo, riuscitissimo, romanzo di Domenico Starnone.
Recensione di Federica Martina Iarrera
Ho aperto Confidenza con un po’ di timore; avevo in mente di farci un articolo a forma di elenco, in cui isolare un paio di consigli di scrittura possibilmente utili. L’autore è uno dei più importanti che abbiamo in Italia, da qualche anno ha conosciuto un notevole rilancio anche a livello internazionale: mi sentivo come nell’atto di entrare in un luogo sacro. Poi ho letto il romanzo. Non mi sono ricreduto, sia chiaro. Ma sono rimasto stupito da quanto poco si prestasse al lavoro di estrazione che avevo messo in programma. Spiegherò perché. L’elenco poi l’ho fatto, comunque, e comincia da qui.
Densità. Volendola definire: è quella capacità di scrivere romanzi di cento pagine che contengono romanzi da cinquecento. La scrittura di Starnone è limpidissima, soprattutto nelle prime battute: mette in chiaro senza troppi giri di parole dove vuole arrivare. C’è un uomo che confida alla sua donna un segreto terribile. Poi si lasciano. Ma lei rimane sempre presente. Seguiamo buona parte della vita dell’uomo con la consapevolezza sotterranea che ogni cosa può crollare da un momento all’altro: la donna conosce quel segreto, è l’unica a conoscerlo, da un capitolo all’altro può farlo esplodere insieme a tutta la vita dell’uomo.
Stiamo in tensione dall’inizio fino alla frase finale. In mezzo a questi due poli Starnone ci mette di tutto: a volte pagine di pensieri che scaturiscono guardando alla finestra, a volte la sintesi di anni in un paio di righe. Un sacco di vita che scorre ad alta velocità – di tanto in tanto frena un poco, scala la marcia, poi riprende ad accelerare. Che ce ne frega che l’uomo si sposa con un’altra, che ha una figlia, poi due, poi tre, che scrive un libro e si guadagna un piccolo spazio nel panorama intellettuale italiano? Sono fatterelli che si accumulano rapidamente mentre la bomba, sotto di noi, continua a ticchettare. E allora qualsiasi dettaglio ci fa strabuzzare gli occhi, diventa un indizio fondamentale per capire quando arriverà l’esplosione.
Spietatezza. Non è che sia facile scrivere un romanzo in questo modo: tutto costruito sulla fragile tensione tra due poli. E la cosa davvero sorprendente è che Starnone ha rinunciato a davvero qualsiasi altro strumento narrativo che poteva impiegare per spingere la lettura in avanti. Ha rinunciato completamente, per dire, all’empatia. Troverete a stento tra queste pagine qualcosa che vi commuoverà, una strizzata d’occhio ai vostri sentimenti. Non c’è nessuna concessione al dolore: solo lo spavento di un disastro che incombe. È come giocare una partita a scacchi cercando di vincere esclusivamente con un pezzo. L’unico vero tirante è quella bomba sotto di noi.
E allora la bellezza sostanziale di questo romanzo sta non tanto nelle cose che succedono o nelle emozioni che può suscitarci, ma nel modo in cui le sicurezze e le insicurezza quotidiane del protagonista si intrecciano tra loro pagina dopo pagina e ci ricordano le nostre. La geometria variabile della percezione di sé. La tensione continua generata dalla percezione che gli altri hanno di noi. È come se Starnone avesse deciso di spogliare la narrazione di tutto, per ridurla a testimonianza di quella battaglia che per tutta la vita conduciamo con noi stessi e con gli altri. Naturalmente, non lo fa mettendosi lì a raccontare la propria esperienza di maschio occidentale, ma ci scava dentro con circospezione, silenziosamente, senza mai distaccarsi dai confini della fiction. Questo basta, in fondo, a metterci una paura tremenda.
Precarietà. Qui arriva secondo me la vera scollatura di questo romanzo. Un ragionamento che alla fine mi ha inquietato. Proprio l’attenzione naturalista ai processi mentali, alle sfumature psicologiche, al rapporto con noi stessi, all’incapacità di considerarci imperfetti, fa in modo, alla fine, che la struttura del romanzo crolli su se stessa. Per cento pagine seguiamo il racconto della vita di quest’uomo, poi all’improvviso voltiamo pagina e sta parlando sua figlia, trent’anni dopo. E ok, la cosa ci spiazza un po’, perché il romanzo è quasi finito e ci chiediamo che senso abbia inserire all’improvviso questo secondo punto di vista; ma tutto sommato non fa niente, ci fidiamo di Starnone e andiamo avanti così. Pochissimo dopo voltiamo pagina e la voce cambia di nuovo: il romanzo si chiude con un paio di pagine dedicate alla donna che all’inizio di tutto aveva raccolto quella confidenza terribile. La bomba che ticchettava.
La funzione di questo cambio di punto di vista non sta, come classicamente siamo abituati a concepire, nel desiderio di raccontare un unico fatto da più prospettive. È ovvio: se così fosse sarebbe stato seminato pagine e pagine prima. Si vede che a Starnone non gliene frega proprio niente. Invece tira fuori queste altre voci all’ultimo, le rende inconciliabili con quella principale, in modo che siano non un completamento del racconto ma i punti di apertura di ulteriori spiragli. Come se da lì il romanzo potesse prendere il volo, districarsi in mille frazioni autonome senza trovare mai una chiusura.
Lo ammette Starnone in un’intervista recente con Christian Raimo (la potete trovare qui): che ultimamente ha costruito i suoi “edifici narrativi in modo sempre più instabile, forse per un sentimento crescente della precarietà”. In sostanza fa adagiare il lettore sulla sospensione dell’incredulità, poi di colpo, intenzionalmente, lo fa cadere. “I miei racconti franano. E la frana si verifica anche per un bisogno strutturale di verità (estetica, sociologica politica, esistenziale) che tecnicamente provo ad ottenere prima lavorando goduriosamente alla sospensione dell’incredulità e poi dissolvendola con qualche sofferenza”. È esattamente questo, non saprei descriverlo meglio.
E qui spiego il mio disagio annunciato all’inizio. A me, da giovane sprovveduto, convinto da sempre che la letteratura debba cercare una qualche perfezione, una forma conchiusa – perché scrivere in fondo è prendere il disordine della vita e ridurlo a meccanismo finito e infallibile, è prendere la vita liquida e trasportarla allo stato solido (e forse questa credenza in fondo è sempre stata una specie di consolazione: il tentativo di dirmi che tanto è solo una questione di trovare il meccanismo giusto) – a me questa cosa, il fatto che la letteratura debba mostrarsi non solida ma precaria, mi spaventa, non so a voi. In qualità di scrittore, mi ha messo paura – esattamente come mi ha messo paura in qualità di uomo leggermi, in questo romanzo, completamente scarnificato. Quindi, signor Starnone: tanto di cappello.
Recensione di Pierpaolo Moscatello
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