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Una volontà d'essere etereo, di abitare il vento della parola e non la sua stoffa pulsante, come una discrezione che quasi si scusa per aver soffiato fra l'occhio e il foglio le sue frasi riconoscenti e si allontana, schiva, in un angolo tenero e silente: "Scrivo poesie per liberarmi,/ espiare e sparire/ dall'angolo alto a destra delle cose, per rendere grazie". Quello che Wright dice nel corso dell'introduzione è già da solo lo specchio di tutto il suo percorso: "Lo stile è tutto, è come l'essere per Heidegger, è interno, non esterno. Il jazz ad esempio può darsi che sia tutto stile, ma è anche soul, anima, affinché l'implicito sia importante come l'esplicito". Dunque la parola come autentico tessuto interiore, lembo di un sentire profondo che azzarda la fisicità di un adagio, che traduce pruriti d'arcano e fa emergere dalle pareti dell'io l'acqua di un credo lirico. Quando si chiedesse al poeta "cosa fai?", la risposta dovrebbe essere: il mio compito è scalare i segreti, tentare di arrivare su una cima dove almeno mezzo verso non sembri più lo sforzo di chi lotta con alfabeti riottosi, ma la gioia d'averne compreso i respiri. Non importa poi quanto alla rinfusa, sbattendo fra spigoli non visti e scivolando su acquitrini a sorpresa, il tragitto non cambia. Scrive Wright: "La mia colpa è stata quella d'aver continuato a mettere il naso nell'ignoto senza avere, a differenza di Dante, una mappa, né un punto d'ingresso, né un punto d'arrivo". Perdersi fra le volte della lingua, fiutarne la polvere magica, resta comunque quello il compito. Con amore e rispetto, premura e pazienza, perché il buio vede tutto e distingue subito chi vuole violentarlo da chi invece, devotamente, gli si avvicina per chiedergli un autografo. La parola sa riconoscere chi vuol strangolarla e chi accarezzarla, sa discernere chi la corteggia davvero da chi è soltanto un vuoto e annoiato seduttore. La parola sa dove annidarsi, sa scegliere, e qui è fra le sue stanze più belle e confortanti.
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