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Testo davvero interessante. Il bambini di Varsavia è oggi un'icona delle vittime della Shoah, ma la foto nasce per essere parte di un più ampio rapporto fotografico nazista. Rousseau ne delinea la genesi e l'evoluzione. Testo ben scritto e molto veloce da leggere. Consigliato!
Recensioni
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Iniziamo dal nome: il bambino nella fotografia, che esce con le mani alzate da una casa del ghetto di Varsavia, si chiama Artek Siemontek, è il figlio di Léon e Sarah Domb e all'epoca ha circa otto anni. È un dato importante, questo, perché quasi sempre un'immagine che diventa icona, simbolo di una memoria collettiva, finisce per sacrificare la vera essenza del suo contenuto: la storia umana che racconta. Quasi nessuno ricorda il nome del soldato russo che sventola la bandiera rossa sul tetto del Reichstag a Berlino, nel 1945; o il nome del giovane miliziano spagnolo che cade, colpito in un'imboscata, nella celeberrima foto di Rober Capa; o, ancora, il nome dello studente che, da solo, ferma una colonna di carri armati in piazza Tienanmen, nel 1989.
Il libro di Frédéric Rousseau racconta la storia della famosa immagine del ghetto, dal momento dello scatto e per tutto il percorso che "errando nomade nel campo della memoria occidentale per più di sessanta anni", la porta a diventare un'icona della Shoah. Motivo di grande interesse è proprio nella ragione della sua esistenza. La fotografia non è un documento fotogiornalistico, con un intento di denuncia: assieme ad altre 53 immagini è parte integrante di un rapporto redatto dalle SS che, sotto il comando del generale Stroop, hanno l'incarico di reprimere l'insurrezione ebraica scoppiata tra il 19 aprile e il 16 maggio del 1943, con la successiva distruzione del ghetto di Varsavia.
Le fotografie sono quindi scattate da soldati tedeschi, o da fotografi al seguito delle SS, e servivano a certificare l'ottima riuscita dell'operazione militare. Il rapporto Stroop, con le sue immagini, diventerà un importante elemento di prova nel processo di Norimberga, ma ciò nonostante la fotografia del bambino rimarrà un documento inosservato per diversi decenni in quanto, soprattutto nel mondo ebraico, la memoria collettiva sarà inizialmente impegnata nella ricerca di simboli eroici e di una resistenza combattente, piuttosto che delle vittime dell'olocausto.
Dopo alcune sporadiche apparizioni, in film e documentari, sarà la rivista "Life", nel 1960, a pubblicare la foto del bambino di Varsavia, per illustrare gli estratti delle memorie di Adolf Eichmann, che era stato appena rapito in Argentina e trasferito in Israele per essere giudicato. È da questo momento che il bambino incarna il genocidio nella sua totalità, rappresentando tutte le vittime della Shoah.
Rousseau, che è docente di storia contemporanea all'università Paul-Valery di Montpellier, offre al lettore una doppia chiave di lettura: a una scrittura fluida e piacevole, ricca di estratti e citazioni, affianca un importante apparato di note e indicazioni bibliografiche. Nel volume sono presenti anche tutte le immagini che erano allegate al rapporto Stroop (anche se un po' penalizzate dalla qualità di stampa) e diversi esempi del successivo utilizzo della fotografia del bambino di Varsavia in campo editoriale. È un saggio molto utile, per la completezza della ricostruzione che offre di una delle pagine più buie dell'olocausto degli ebrei, ma anche perché racconta e spiega i meccanismi della nascita e dei percorsi evolutivi della memoria collettiva e delle sue icone.
A proposito: il soldato russo che sventola la bandiera rossa sul Reichstag si chiamava Abdulkhakim Ismailov, aveva ventotto anni ed è morto nel febbraio del 2010, a novantatre anni; il miliziano della foto di Capa si chiamava Federico Borrel Garcia e aveva ventiquattro anni; lo studente di piazza Tienanmen si chiama Wang Weilin, di diciassette anni, ma quest'ultima identità, a tutt'oggi, non è verificabile.
Maurizio Garofalo
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