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recensione di Rodotà, S., L'Indice 1995, n.11
Questo singolare libro di Pietro Ingrao e Rossana Rossanda è stato accolto pure con moti di fastidio, giustificati da una presunta arcaicità del suo impianto e dall'improponibilità di alcune parole (di una: comunismo), ma in realtà originati dal fatto che in esso si indica una agenda delle questioni ben diversa da quella che, per convinzione o rassegnazione, sembra accettata da molti (troppi?); e si manifesta con forza un'intenzione di non accompagnare con argomenti compiacenti la discussione che ci porta verso la fine del secolo. Così il fastidio, e la ripulsa, apparentemente sono rivolti contro il metodo: nella sostanza, invece, manifestano la volontà di non discutere più di alcune questioni, quale che sia il metodo adoperato. Il dommatismo e la chiusura, che qualcuno ha imputato ai suoi autori, si rivelano allora come il tratto distintivo dei critici, insofferenti dell'altrui pretesa di scuotere le loro tradizionali o freschissime certezze.
Se vi è un libro poco dommatico, fin dal suo impianto, è proprio questo. Lo caratterizza una sorta di voluta incompiutezza, un'intenzione di abbozzare una costruzione, ma pure di lasciarne lì, nude e rivelate, le strutture portanti, con una logica di sfida più che di apertura, dicendo agli altri che con questo bisogna misurarsi, che non sarà il distogliere lo sguardo che farà scomparire i problemi che sono lì, piantati in una durissima realtà. Non bisogna fermarsi, allora, alla sua parte iniziale, che si presenta come la più compatta e, in certo senso, riassuntiva dell'intero arco delle questioni. Perché nei saggi d'altra mano (Marco Revelli, Isidoro Mortellaro, K. S: Karol) si trovano non soltanto integrazioni utilissime, ma addirittura punti di vista divergenti, che dichiarano l'impossibilità di ricorrere a un'unica cifra, di abbandonarsi a semplificazioni. E soprattutto perché il romanzo epistolare tra Ingrao e Rossanda, che costituisce la seconda parte del libro, è così fitto di indicazioni, e di esitazioni e di confessioni, da presentarsi come un cantiere prezioso al quale attingere materiali per proseguire l'analisi, per arrivare più provveduti a quegli ineludibili appuntamenti di cui fa parola il titolo.
Se l'orizzonte è la fine del secolo, il mutamento non ha atteso questa scadenza: è già avvenuto, ed è stato radicale. Ingrao e Rossanda ne riassumono i caratteri intorno ad alcune parole chiave: postfordismo, precarizzazione, mondializzazione, informatizzazione. Il denominatore comune è costituito dalla questione del lavoro; il punto di riferimento costante riguarda la sinistra, la sua storia, le sue responsabilità, il suo futuro.
Rossanda si chiede: "In quale misura per noi vale una lettura del secolo anche attraverso le dinamiche del modo di produzione?". E si aggiunge un altro interrogativo: "Può essere ancora il lavoro, un valore?". Questo è il vero e angoscioso tema del libro, perché qui si misurano il destino della classe operaia e la possibilità stessa di utilizzare ancora lo strumento dell'analisi di classe. Nessuno dei cambiamenti è occultato o sottovalutato, così come è costante il riferimento antagonistico alle logiche del sistema capitalista. Ma si può davvero dire che questa sia una forzatura, o soltanto il residuo nostalgico di impostazioni d'altri tempi, proprio nel momento in cui cominciano a tornare almeno le domande sulla possibilità di considerare il mercato l'unico e indiscutibile punto di riferimento? O ci si deve ritenere ormai esonerati dall'obbligo di riflettere sulla natura dell'impresa oggi, delle logiche che incarna, delle dinamiche che esprime? Piaccia o no, la durezza del richiamo obbliga a riflettere sulla rimozione operata a sinistra dell'intera questione proprietaria, quasi che il fallimento dell'esperienza del "socialismo reale" precludesse ormai la possibilità stessa di discutere il tema che rimane capitale per comprendere la natura dei poteri e la struttura dei rapporti sociali. E ci ricorda che il nostro tempo è pure quello dell'emersione di logiche non proprietarie, legate all'esperienza del pensiero femminile e al radicarsi dell'ecologismo (davvero la prima forma di critica di massa alla logica proprietaria).
Lo sguardo di Ingrao e Rossanda spazia in diverse direzioni. Ci indica la vicenda politica dello stato sociale, la cui liquidazione non discende soltanto dalla crisi fiscale, ma dal fatto che si ritiene esaurita la sua funzione politica, che consisteva nel contrapporre agli stati socialisti un più accettabile modello di relazioni sociali. Ci ricorda quali siano le caratteristiche dell'attuale critica radicale allo stato, che punta alla cancellazione della nozione stessa di spazio pubblico. Ci mostra, in un intenso dialogo con posizioni diverse, quale possa essere il destino del lavoro nel modello produttivo postfordista, sottolineando, come fa con grande efficacia Ingrao, che bisogna "annotare i problemi che si aprono anche per la direzione capitalistica", senza cedere alla tentazione facile di "dare già per chiuso il circolo".
E vi è poi il lavoro che, se rimane un valore, non è l'unico valore di riferimento. Se dov'essere riscattato dal rischio eterno della sua riduzione a merce, dov'essere pure confrontato continuamente con altri valori, per cogliere pienamente "la drasticità che sta assumendo il tema del rapporto tra lavoro e vita".
L'analisi di Ingrao e Rossanda è particolarmente impietosa, e utile, quando insiste sul fatto che proprio l'incapacità di afferrare l'insieme di questo processo è all'origine delle sconfitte della sinistra. Non vi sono vie d'uscita facili, ed essi non le rappresentano mai come tali. Ma su un punto dovrebbero convenire tutti quelli che misurano la gravità dei problemi e sono consapevoli dei rischi di molte delle soluzioni oggi praticate o prospettate: la necessità di una "lettura/opposizione", che restituisca alla sinistra la capacità di rappresentare quell'alternativa sociale e politica che è poi la ragione stessa della sua esistenza.
Leggendo questo libro non si entra in un laboratorio freddo, ma si riscopre la tensione ideale che sola, al di là delle divergenze, può dare senso alla politica. Lascio parlare Rossana Rossanda: "Noi siamo figli ultimi di Lutero, ma senza fede; sapevamo che è poco il tempo che passiamo sulla terra, non c'è una verità trascendente cui appenderlo ed è nostro libero arbitrio decidere in quale modo passarlo... Quale che sia la scelta, i conti non torneranno mai del tutto, ci sarà un'imponente resto. Abbiamo scommesso sul come liberare tutti, non permettere che qualcuno sia schiavo di un altro o di bisogni così primari da non potersi neppure interrogare sul senso del suo passaggio in terra. Come regolare i poteri, come garantirsi la libertà senza azzerare l'altro, come non ridurre l'altro a schiavo o merce o mera funzione di sé? Questa scommessa la rifarei".
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