D'amore e di violenza. Di corpi, quindi, tratta l'ultimo libro di Lea Melandri. Al centro dell'indagine il corpo mai neutro, il corpo sessuato, irriducibile all'astrattezza della norma, si fa manifesto di una profonda e fertile ambiguità. Da un lato, esso porta inevitabilmente sulla scena le differenze biologiche del maschio e della femmina, a partire dalle quali si è instaurato, nel corso della storia, il più solido e duraturo dei rapporti di potere. Dall'altro, muovendo dalla nozione stessa di corpo, il pensiero femminista ha gettato le basi per il recupero di una narrazione autentica di sé e della totalità della persona (con la sua sessualità, i suoi affetti, le sue passioni, i suoi legami) all'interno di un discorso pubblico orientato verso una "politica della vita".
Entrambe queste dimensioni sembrano tuttavia insufficienti a restituire un'adeguata diagnosi del presente. Se, infatti, con l'implosione degli orizzonti metafisici e delle grandi narrazioni storiche, la rigida struttura sociale costruita su una netta divisione dei ruoli secondo il genere risulta ormai obsoleta, l'attuale presenza nello spazio pubblico di corpi femminili ("femminilizzazione dello spazio pubblico") appare per lo più ridotta ai suoi connotati materni o erotici, e di conseguenza a una posizione ancora ancillare rispetto alla dominante cultura maschile. Sotto le mentite spoglie di una tregua nel conflitto di genere, Melandri individua una forma inedita e subdola del dominio maschile, volta a ricondurre le prestazioni pubbliche della figura femminile a stereotipi che possono essere associati al ruolo materno o a quello erotico-seduttivo di amante.
L'intento dell'autrice è quello di smascherare il nucleo profondo di violenza, inscindibile dalla sfera amorosa, a partire dal rapporto erotico-privato che per antonomasia lega una donna e un uomo, quello tra madre e figlio. Lo strappo violento del parto, che rompe la diade amorosa del perfetto erotismo gestazionale (la realizzazione della massima amorosa "di più d'uno, uno"), fonda, allo stesso tempo, l'esperienza dell'"amore come nostalgia" e quella dell'estraneità del corpo amato. In questo sdoppiamento, cui va incontro il soggetto maschile, tra la volontà di riconquista del sogno d'amore e, contemporaneamente, quella di dominio sul corpo materno che, con l'elargizione di cure, aveva indirettamente esercitato un potere "di vita e di morte" sul neonato, viene individuata l'origine della violenza fra i sessi. Adottando un duplice livello di analisi, individuale e storico-collettivo, Melandri ricostruisce i processi dell'esclusione della donna dalla dimensione pubblica, intesa nelle molteplici declinazioni di mondo del lavoro, dell'etica e della politica. A queste pratiche, concomitanti con l'affermazione di una struttura semantico-lessicale di matrice maschile, è seguita, dal punto di vista del soggetto femminile, la progressiva, ma radicale introiezione di tale forma di subordinazione. Adesione a un ruolo ancillare così profonda che nemmeno il recente fenomeno di femminilizzazione dello spazio pubblico è riuscito a superare. La presenza femminile in luoghi un tempo di esclusivo appannaggio maschile (il mondo del lavoro e della politica, per esempio) è caratterizzata infatti da una costante enfasi sugli attributi materni e/o erotici delle donne, sulle loro capacità relazionali e la loro naturale e oblativa predisposizione alla cura, che non restituiscono la pienezza dell'identità femminile. A loro volta, le donne non sembrano sottrarsi a questa continua assunzione di responsabilità nei confronti di una struttura sociale che le esorta a rivestire una molteplicità caleidoscopica di ruoli senza piena libertà di scelta e possibilità di autorealizzazione.
Conniventi, in parte, con tale sistema, le donne si cimentano in esasperanti virtuosismi da funanbole in precario equilibrio tra dimensione pubblica e privata, tra carriera e famiglia. Vittime, soprattutto, esse subiscono ancora un dominio maschile dal lessico ambiguo, che in un crescendo di strumentalizzazioni arriva a chiamare "corpi liberati" i "corpi prostituiti" delle sue "schiave radiose". Tali processi di subordinazione e marginalizzazione, radicati nell'esperienza dell'estraneità originaria del corpo di donna, finiscono per trascendere la questione "femminile" e si fanno portatori delle istanze di un'"alterità" che ci interroga, dilatando e mescolando i confini rassicuranti che un paradigma moderno ormai vacillante aveva eletto a categorie epistemiche privilegiate di restituzione del reale. Alla cultura femminile, quindi, il compito di rispondere con un "salvifico bilinguismo", per citare Laura Kreyder, ovvero un discorso che sottragga la parola al lessico maschile della politica e dell'etica, che parli sia il linguaggio del "sé" che quello del "fuori" della vita sociale, nella consapevolezza dell'ambiguità e della conflittualità che questo porta con sé. Elena Acuti
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