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Con un felice ossimoro, fin dal titolo il libro di Alovisio identifica molteplici prospettive di studio e anticipa la ricchezza di spunti del suo lavoro, in cui il rigore della ricerca in archivio si salda alla competenza teorica e metodologica. A partire dallo specifico torinese, il testo si interroga sul ruolo della sceneggiatura e sulle sue caratteristiche fondative nel cinema italiano degli anni dieci, per cogliere da un lato la complessità dei processi di produzione, intellettuali e materiali, presto codificati nella realizzazione dei film dell'epoca; d'altro lato per approfondire la riflessione teorica su una fase di progettazione e di costruzione del film che media continuamente esigenze letterarie e visive e si pone problematicamente all'incrocio tra differenti modalità di rappresentazione, "struttura che vuole essere altra struttura", secondo la citazione pasoliniana evocata nel libro.
Emerge così che il muto italiano dell'epoca non si limitava alle didascalie di d'Annunzio o alle sceneggiature "nascoste" di Verga e non era semplicemente letteratura illustrata, ma vedeva già operativi una serie di soggettisti e riduttori che avevano il compito si scrivere pensando per le immagini. Dai profili di Arrigo Frusta, Renzo Chiosso, Lucio D'Ambra emergono figure professionali particolarmente complesse che, oltre lo stereotipo dei pionieri un po' improvvisati, rivelano strategie operative che toccano questioni ancora oggi molto dibattute: dalla creazione di un lessico specializzato all'utilizzo delle immagini direttamente in fase di scrittura, anticipando gli storyboards contemporanei; dalla codificazione di strutture narrative specifiche alla dialettica tra effetto letterario e specifici codici di regia, quali la profondità di campo e l'illuminazione, o di recitazione attoriale.
Sulla documentata ricerca storica, che utilizza fonti di vario tipo e analizza in profondità opere specifiche che confluiscono in un'appendice molto ricca, riferita ai film principali dell'epoca, il testo di Alovisio innerva continuamente spunti metodologici e connessioni teoriche che trascendono il caso del muto torinese negli anni dieci, ponendosi come modello per un utilizzo del cinema in una prospettiva di ricerca a un tempo storica, culturale e sociale oltre che, ovviamente, estetica, linguistica e narrativa.
In questo senso, tra i molti meriti di questo saggio, va sottolineato quello di stimolare nel lettore una molteplicità di riflessioni e connessioni di largo respiro, che interessano non solo la nicchia dei fruitori specializzati, quali gli studiosi del cinema muto o i teorici della sceneggiatura, ma possono risultare appassionanti per chiunque sia interessato a cogliere i legami tra il cinema, le sue modalità di produzione e di rappresentazione e la propria epoca.
Michele Marangi
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