È particolarmente suggestivo cominciare una riflessione sul tema della restituzione dell’arte depredata dai nazisti agli ebrei perseguitati con una citazione da Se non ora, quando? di Primo Levi. In quel passaggio c’è infatti, evidente, il richiamo testuale alla restituzione. Insieme c’è però, forte, il riconoscimento della tradizione ebraica: profilo chiave di una giustizia “restitutiva” che risponda al diniego della dignità insito nel disegno genocida, in cui la questione delle spoliazioni deve necessariamente (anche se non esclusivamente) iscriversi. C’è, ancora, il richiamo alla pluralità (diversità) delle storie (personali e sociali) che finiscono nell’orrenda rete della Shoah: gli ebrei delle varie tradizioni, orientali ed occidentali; gli ebrei praticanti e quelli non praticanti, sino agli atei di discendenza ebraica. Tutti costoro furono allora forzati in un’identità imposta dai persecutori e accettata dagli indifferenti, che diventò così tragicamente reale non solo nella persecuzione, durante il dominio nazifascista d’Europa, ma anche nell’assenza di risposta, frutto di quella stessa, perdurante indifferenza, dopo la fine della guerra. Quell’unità di persecuzione ed indifferenza richiede, ora, un’unità di risposta, seppur tardiva. Poiché però il fenomeno di cui ci si occupa fu, in realtà, complesso e multiforme e non fu il solo a vedere – in un quadro di crimine internazionale perpetrato dalle forze nazifasciste – una colossale opera di depredazione, o spoliazione, di beni artistici, pure la risposta, seppur complessivamente unitaria (la restituzione), dovrà in qualche modo tener conto anche dei profili di diversità all’interno di quel fenomeno, da un lato, e della diversità di quel fenomeno rispetto ad altri (la depredazione artistica compiuta fuori dal contesto della persecuzione antiebraica e del genocidio). Ecco allora la necessità di interrogarsi su quali siano i fenomeni storici di spoliazione su cui si intende volgere lo sguardo, e su cosa si intenda per restituzione.
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