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Premio Letterario Internazionale Mondello 45a edizione - Sezione Opera Italiana
Con una scrittura visionaria e sapienzale, Andrea Gentile incanta, stupisce e scuote il lettore e, con sicurezza di sciamano, disgregando lo spazio-tempo narrativo, sposta il confine di quello che è possibile fare con la forma romanzo.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Il miglior libro di Gentile, un megaromanzo sperimentale nella forma e nel contenuto che in questa opera si fondono perfettamente, quasi come in una oscura alchimia letteraria. Visionario, fantastico, macabro, esoterico, a tratti morboso e ligottiano, magnifica l'atmosfera opprimente e cupa che amplifica la potenza icastica, espressiva del testo, esaltandone il simbolismo e il perturbante impatto narrativo.
Una discesa nelle tre paure presenti in tutti noi e che spesso ci fanno provare la sensazione di essere sull'orlo di un abisso: il tempo che passa, l'auto-analisi e il sovvertimento delle regole. Per salvarsi ci sono due possibilità: o darsi a comportamenti ossessivo-compulsivi fino alla violenza, come succede agli abitanti di Masserie di Cristo, o darsi all'arte, come il Custode del Mondo degli Inferi. In particolare la scrittura è terapeutica. L'horror non è in vampiri, zombie e streghe, ma in noi! Un libro complesso, lungo, difficile, che va letto e riletto con calma. Come la Bibbia, una lettura lenta che potrà accompagnare il lettore nella vita, nel tentativo di capire la razionalità della follia umana e di aiutare a superarne la brutalità con la meraviglia delle opere creative. Copertina: 5 Storia: 4 Stile: 5
Illeggibile. Non so come hanno fatto quelli che sono arrivati al termine di questo mattone pomposo e presuntuoso. L'ho trovato grottesco, nel senso peggiore del termine.
Recensioni
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Nell’ultimo decennio, “ombelicale” pareva diventato l’insulto peggiore per un libro, un’autore o un’intera, supposta, letteratura, la cui ampiezza era forse il prodotto dell’infornata di esordienti seguita al successo avuto da alcuni di essi a metà anni zero: difficilmente, infatti, un autore al primo libro va troppo lontano dal proprio ombelico (né ciò è per forza un difetto: il recente Maestoso è l’abbandono di Sara Gamberini è un esempio di narrazione ombelicalissima eppure valida); se è vero, allora, che la “bolla degli esordienti” nel frattempo è esplosa, apparirà normale che oggi, cresciuti gli autori e tornate le case editrici a diffidare degli esordî, sboccino opere che vanno nella direzione opposta: quella della creazione di mondi. Al di là del distopico in voga, rispetto a cui sono appena arrivate sugli scaffali due interpretazioni italiane di grande originalità, Il grido di Luciano Funetta e Miden di Veronica Raimo, questa primavera vede l’avvento di almeno due lavori in cui la costruzione di un universo con proprie leggi, e la ricerca di verità ulteriori attraverso la rappresentazione che si svolge al suo interno, è il dato centrale…
…romanzi come Le case del malcontento di Sacha Naspini, a cui l’autore grossetano arriva dopo una bibliografia all’apparenza disorganica – ma a volte, negli autori di talento, la colpa di ciò è di un campo editoriale non sempre in grado di assecondarne il percorso – e in cui riannoda i fili gettati con le sue prime opere: le atmosfere sono quelle dell’esordio L’ingrato, uscito nel 2006 per effequ, e dei due romanzi che gli hanno dato una prima notorietà nazionale – I Cariolanti e Le nostre assenze (Elliot 2009 e 2012) – ma il respiro è ben diverso: quella che viene disposta nell’immaginario, e oltremodo arcigno, borgo maremmano delle Case è infatti una grandiosa partita a scacchi – di più: a Kriegsspiele – in cui il gioco di caratteri ha dell’universale, oltre che dell’abissale: la dimensione locale viene trascesa, sublimandosi in un assoluto dove le suggestioni ancestrali si fanno strumenti atti a raccontare una disperazione e una rabbia tornate a governare la coscienza collettiva del paese…
…così come ancestrale è il clima che si respira nei Vivi e i morti di Andrea Gentile, romanzo in cui il nostro sud – i toponimi che vi si incontrano, Masserie di Cristo, Taverna Soffocata, Torre di Nebbia, paiono frutto della volontà dell’autore di alzare il “tasso simbolico”, ma sono reali, situati nell’isernino – è trasfigurato in un universo non meno adusto e sanguigno di quello di Naspini. Un mondo che a prima vista, data anche una certa facilità dei personaggi all’omicidio, può ricordare le Puglie di un Di Monopoli e del suo Nella perfida terra di Dio (gli gnummareddi, piatto a base di frattaglie onnipresente nei Vivi e i morti, si mangiano del resto in Puglia come in Molise), ma rispetto alle suggestioni neo-western e faulkneriane di quest’ultimo, Gentile va in un’altra direzione e preferisce far emergere, attraverso un atteggiamento beffardo, una lingua volutamente inaderente ai fatti e la disposizione di questi secondo uno schema più simile alla recitazione di un rosario o di un japa che a un sistema di relazioni causa-effetto, una dimensione di pura trascendenza: una “meditazione della terra” con un piede nello scherzo e uno nel divino: e non è forse questa la natura stessa delle sacre rappresentazioni?
Vanni Santoni
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