L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
IBS.it, l'altro eCommerce
Cliccando su “Conferma” dichiari che il contenuto da te inserito è conforme alle Condizioni Generali d’Uso del Sito ed alle Linee Guida sui Contenuti Vietati. Puoi rileggere e modificare e successivamente confermare il tuo contenuto. Tra poche ore lo troverai online (in caso contrario verifica la conformità del contenuto alle policy del Sito).
Grazie per la tua recensione!
Tra poche ore la vedrai online (in caso contrario verifica la conformità del testo alle nostre linee guida). Dopo la pubblicazione per te +4 punti
Altre offerte vendute e spedite dai nostri venditori
Tutti i formati ed edizioni
Promo attive (0)
Titolo: Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi A cura di Fabrizio BarcaAutore: Barca Fabrizio (cura)Editore: Donzelli editoreAnno: 1997tela edit. con sovrac. ill., minime rotture in sovrac., grafici e tabelle in nero nel testo, testi di Amatori, Arrighetti, Barca, Bertucci, Brioschi, Brusco, Capello, Casavola, Conti, D'Antone, de Cecco, Ferri, Magnani, ,Marchetti, Oliva,, Ortoleva, Paba, Seravalli, Trento - fuori catalogo, Progetti Donzelli, Roma
recensione di Gattei, G., L'Indice 1998, n.11
La fine dell'Urss ha finalmente fatto comprendere che di capitalismi ce ne possono essere diversi. Michel Albert ci ha reso edotti (nel suo famoso "Capitalismo contro capitalismo", il Mulino, 1991) che c'è almeno un capitalismo "anglosassone", tutto "deregulation* e "public companies", e un capitalismo "renano", fatto invece di concertazione e investitori istituzionali. Ma c'è stato anche un capitalismo "all'italiana" che ha giocato bene la partita, e per un notevole lasso di tempo, prima di entrare in dissoluzione. È a questo capitalismo nostrano che Fabrizio Barca ha dedicato la meticolosa indagine da lui curata. Il libro è però così ricco di argomenti (spazia indifferentemente dall'assetto proprietario di Fiat, Pirelli e Falk alla disciplina della concorrenza, dalle comunicazioni di massa alla legislazione urbanistica) da stancare il lettore. Eppure la tesi di fondo è netta, in particolare espressa nel saggio introduttivo del curatore, volto a mostrare quali elementi originali hanno fatto la qualità del nostro capitalismo almeno fino al 1962-63, quando cominciarono le "deviazioni" che l'avrebbero poi portato al collasso (ma solo nel corso degli anni novanta).
Si dimostra così che l'efficacia del capitalismo "nazional-popolare" risiedeva intanto in un particolare assetto produttivo fatto di pochi grandi gruppi industriali a conduzione "managerial-famigliare", che resterà la costante del periodo e oltre (perfino gli "uomini nuovi" degli anni settanta, come Romiti, De Benedetti, Gardini o Berlusconi, mostreranno di aver di nuovo solo il nome, non certo il modo di governare le imprese). Accanto stava poi una pletora d'imprese minori, progressivamente organizzate in "distretti" o "sistemi specializzati" per godere delle economie di scala, e comunque ampiamente favorite da un regime normativo e istituzionale di comodo. Seguiva la sostanziale subalternità di un mercato del lavoro caratterizzato, dalla fine degli anni quaranta, da "bassissimo grado di istituzionalizzazione; assenza di regolazione legislativa (il diritto di sciopero non è regolamentato, le rappresentanze del lavoro non hanno status giuridico); strutture sindacali d'impresa quasi inesistenti; contrattazione collettiva centralizzata". Sul tutto troneggiavano infine le partecipazioni statali, a far da sostegno e traino allo sviluppo secondo un originale modello ideato all'alba del secolo da Francesco Saverio Nitti e poi messo in opera, nell'epoca del Duce, da personaggi come Menichella, Petrocchi, Ruini, Stringher, Beneduce. Commenta il curatore: "l'Italia adottava una soluzione propria, originale, che l'avrebbe differenziata a lungo da entrambi i modelli che, durante quella stessa crisi [del '29], si andavano affermando nei capitalismi statunitense e tedesco (...) È con questo peculiare assetto istituzionale dell'intervento pubblico nell'economia, nato non per un 'caso della storia', ma in attuazione di un preciso progetto, che la democrazia italiana si trova a fare i conti al momento della sua nascita".
Questa "opzione nittiana" (oppure quel "sistema Beneduce" di cui parla Marcello De Cecco a pagina 389) era tuttavia appena un compromesso "straordinario" perché affidava il suo successo "a requisiti straordinari: alla stesura e al senso di missione dei dirigenti degli enti pubblici, senza prevederne meccanismi di riproduzione e di rinnovamento (...) ad una condizione di crescita assai moderata dei salari". E se poi questo compromesso "non si compie per opera di un esplicito grande accordo, vi è un luogo dove gli interessi diversi trovano composizione attraverso atti di governo e di non governo: la Democrazia cristiana (...) La Dc di Alcide De Gasperi sa diventare il centro della mediazione politica, l'interprete e il frutto stesso del compromesso".Sono così evidenziati i tre principali elementi di forza del capitalismo "all'italiana": l'acquiescenza salariale, l'efficienza dell'imprenditoria pubblica, la mediazione democristiana. Tolti questi, quel "compromesso straordinario" sarebbe naturalmente saltato.
È la crisi del 1962-63 a segnare il punto di svolta, "col venir meno", (...) del regime straordinario di bassi salari" a seguito del conseguimento del pieno impiego (la disoccupazione scese fino al 2,5% delle forze-lavoro, un minimo mai più eguagliato). Ne seguì una stagione di "sregolatezza e conflittualità nel sistema delle relazioni industriali" che ha messo a dura prova la resistenza dell'apparato produttivo (la cui storia è già stata raccontata proprio da Fabrizio Barca, insieme a Marco Magnani, in "L'industria fra capitale e lavoro.Piccole e grandi imprese dall'autunno caldo alla ristrutturazione", il Mulino, 1989). Al soccorso si è intervenuti col "rafforzamento dei legami incestuosi tra grandi imprese e sistema politico" e con la "lunga degenerazione" delle partecipazioni statali, cui sono stati affidati "obiettivi diversi dal profitto", come il salvataggio di aziende decotte oppure il sostegno dell'occupazione, sicché anche qui è stata "inevitabile la commistione fra impresa pubblica e partiti". Si è così realizzata quella "occupazione dell'economia da parte dei partiti" che oggi tutti deprecano, ma che allora venne riconosciuta necessaria per difendere in qualche modo un apparato industriale aggredito da troppi "autunni caldi" e "crisi petrolifere". Invero proprio grazie al funzionamento del "compromesso" con la politica il nostro capitalismo ha retto bene alla prova degli anni ottanta, tanto che Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa hanno potuto elogiare le scelte econo-miche di allora per aver fatto galleggiare l'economia nazionale molto meglio dell'Inghilterra della signora Thatcher ("Italy: the real effects of inflation and disinflation*, in "Economic policy", 1989, n. 8, pp. 135-71).
Così è solo "a partire dal 1991 [che] si riconosce l'irreversibilità della crisi dell'impresa pubblica e si pone mano al cambiamento. Concorrono a questa scelta tardiva l'impossibilità di fare ulteriore ricorso ai fondi di dotazione - anche per l'intervento della Commissione europea -, la necessità di contribuire alla riduzione del debito pubblico, il rivolgimento del sistema politico".
Ma qui giunti, stranamente il bel volume si fa reticente. Volontariamente confinatosi ai soli movimenti della struttura economica, non è in grado di sottolineare in maniera adeguata che, affinché il capitalismo "all'italiana" trovasse il suo termine "ad quem", occorreva che cadesse anche il terzo elemento di legittimità (dopo i bassi salari e l'efficienza delle partecipazioni statali), ossia la mediazione compromissoria della Democrazia cristiana. È infatti solo con il crollo del muro di Berlino che si esaurisce la sua funzione di "baluardo necessario": è allora, come ha scritto Franco Cangini ("Storia della prima repubblica", Newton & Compton, 1994), che "tanto per la prima repubblica quanto per l'Unione sovietica è il principio della fine. I due destini storici s'incrociano inaspettatamente nel punto terminale del percorso di crisi del comunismo (...) È come se il consenso lungamente riscosso dalla versione italiana del sistema democratico sia dipeso principalmente dal paragone col sistema alternativo del socialismo realizzato. Caduto il termine di paragone, il consenso si dilegua nella febbre improvvisa dei cambiamenti radicali". Che però sono stati cambiamenti soprattutto politici, sicché "alle soglie del 2000" lo stesso curatore è costretto ad ammettere che "il capitalismo italiano è per certi versi ancora a suffragio ristretto come cinquant'anni or sono". Però egli s'immagina che "forse le premesse per il superamento del capitalismo a suffragio ristretto sono state poste". Ma c'è da dubitarne. Le difficoltà a tutti note del processo di privatizzazione e un certo strano attivismo del Ministero del Tesoro non inducono a pensarla in quel senso. Può darsi infatti che il "modello Beneduce" e l'"opzione nittiana" siano talmente iscritti nel Dna della nostra economia da non potersene più liberare.
L'articolo è stato aggiunto al carrello
Le schede prodotto sono aggiornate in conformità al Regolamento UE 988/2023. Laddove ci fossero taluni dati non disponibili per ragioni indipendenti da IBS, vi informiamo che stiamo compiendo ogni ragionevole sforzo per inserirli. Vi invitiamo a controllare periodicamente il sito www.ibs.it per eventuali novità e aggiornamenti.
Per le vendite di prodotti da terze parti, ciascun venditore si assume la piena e diretta responsabilità per la commercializzazione del prodotto e per la sua conformità al Regolamento UE 988/2023, nonché alle normative nazionali ed europee vigenti.
Per informazioni sulla sicurezza dei prodotti, contattare complianceDSA@feltrinelli.it
L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.
Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore