"Dove ci sentiamo a casa?" La domanda di Agnes Heller muove significati e nozioni che hanno riscritto in questi anni l'idea dell'abitare nell'ambito delle discipline sociali, come di quelle urbane: due campi attraversati da tensioni diverse, che si tengono d'occhio, ma interloquiscono poco. In campo urbano, a partire dalle ricerche degli anni novanta, si sono osservate le forme, le esperienze e i luoghi dell'abitare, con una particolare attenzione all'informale, al temporaneo, al condiviso. Se ne sono ripercorse le cronache per capire quali mutamenti negli stili di vita l'abitare riflettesse e come questi infrangessero definitivamente i modelli funzionalisti, ritenuti un tempo in grado di rappresentare in modo univoco (e strettamente interrelato) esigenze, valori e meccanismi di produzione del bene casa. L'abitare è parso, entro queste ricerche, un diritto elementare e un'affermazione di libertà. L'indagine fenomenologica è il loro tratto dominante e a ciò si deve la particolare attenzione rivolta al riconoscimento di diversità: una vera e propria passione per la diversità che ha finito, in alcuni casi, con lo spoliticizzare il problema. Così, in una stagione fertile sotto molti aspetti, è rimasta ai margini una concezione dell'abitare come problema politico. Anche in campo sociale molte ricerche hanno teso a frammentare l'idea che l'abitare riguardi un contesto fisso, univocamente definito da confini tangibili, delimitati in base a criteri di specializzazione funzionale dello spazio e garantiti dall'ordine sociale esistente. A vantaggio di un'idea che chiama in causa aspetti diversi: la dialettica tra affettività e strumentalità; le negoziazioni e le pratiche di cui è intessuta la quotidianità; il legame tra memoria e progetto nella costruzione identitaria; il rapporto tra dimensione individuale e quella collettiva dell'agire; la natura storicamente condizionata dell'esperienza dell'abitare. Anche qui tuttavia qualcosa rimane un po' in ombra: la specificità dei luoghi. Nei loro caratteri fisici e materiali i luoghi sono ciò che permette di cogliere usi, affettività, strumentalità. Sono uno snodo problematico e nel contempo uno straordinario dispositivo di osservazione. In entrambi i casi si è nondimeno capito che la domanda di Agnes Heller non ammette risposte semplificate. Il volume di Carmen Leccardi, Marita Rampazi e Maria Grazia Gambardella offre interessanti spunti per continuare a ragionare su queste due direzioni di lavoro, riproponendo gli esiti di un ricerca condotta a livello nazionale (parzialmente presentati nel volume a cura di Giuliana Mandich, Culture quotidiane. Addomesticare lo spazio e il tempo, Carocci, 2010). Lo studio è costruito a partire da un'indagine empirica condotta nelle città di Pavia e Milano, inseguendo il "sentirsi a casa" di una fascia di popolazione giovanile. Al centro della riflessione sulla casa è la ricostruzione del significato assunto da questo concetto nella tradizione occidentale, fuori da impostazioni dicotomiche: la casa non è più (ma lo è mai stata?) ambito esclusivo della sfera privata. La trasformazione di percorsi biografici e stili di vita hanno messo in crisi la standardizzazione dei modelli di ruolo associati alla strutturazione del privato nella vita domestica. Così come sono cambiate fortemente nel loro strutturarsi le sfere del lavoro, del muoversi, della dimensione civico-politica tipiche della sfera pubblica. Ed è cambiato radicalmente anche il modo di concepire l'agire-in-pubblico. Il "sentirsi a casa" è costruito su modelli di azione che rispondono alla doppia esigenza di identificare un luogo e di negoziare il proprio starvi. Il concetto di casa rimane al centro della riflessione sulla città. Qui si opera un rovesciamento: non solo la casa non è più la sfera dell'esclusiva domesticità, ma la città, in alcuni suoi luoghi, diviene una "casa pubblica". Una strada, una piazza, una parte dell'alloggio diventano casa quando si riconosce che lì vengono create forme di relazione soggettivamente significative. Potremmo dire che questo richiama le retoriche degli interni, delle bolle, dei gusci di Sloterdijk, così celebrate nel discorso architettonico e urbanistico. Le bolle (o le "case pubbliche") sono qualcosa che ispessisce lo spazio, lo sottrae alla condizione liscia e trasparente propria della tradizione moderna. La "casa pubblica" è un'isola di relazione e comunicazione creata dai soggetti, dalle loro azioni e dalle tattiche di reciproco riconoscimento. Costruita e difesa attraverso l'impegno quotidiano realizzato attraverso forme di partecipazione culturale e creativa. L'indagine condotta presso collettivi, centri sociali e cultori di arti di strada mette al lavoro concetti quali cittadinanza culturale, sguardo cosmopolita, riterritorializzazione. È forte l'attenzione alla costruzione di un tempo e di uno spazio diverso da quello spaesante di tanta parte della città contemporanea. Il che muove forme di responsabilità pubblica, ma rischia di scivolare nella nostalgia del quartiere. Ci sono numerosi punti di contatto con fronti della ricerca urbana. Non solo nella comune convinzione che il territorio sia l'uso che se ne fa, come direbbe Pier Luigi Crosta, e che siano dunque le azioni a definirlo. Ma anche l'importanza conferita agli aspetti culturali è comune, seppure da un lato con riferimento ai giovani street artists e dall'altro alle culture del progetto, dell'impresa, della politica. Parte della ricerca in campo urbano si sta occupando dei "territori della condivisione" che, al pari delle "case pubbliche", non sono "rifugi di un mondo senza cuore", ma l'affermazione di mondi di significato condivisi. Osservando la città contemporanea dalla prospettiva degli studi di sociologia culturale, come da quella degli studi urbani, ci si è accorti che tra lo spazio dell'edonismo individualista e quello dell'ossessione comunitaria non c'è il vuoto. Abitare non significa oscillare tra questi due estremi, ma, sempre più spesso, praticare qualche modo del vivre ensemble con ciò che ne deriva in termini di appropriazione, negoziazione e conflitto. I "territori della condivisione", le "case pubbliche" sono luoghi pieni, rappresentano un ispessimento orizzontale delle relazioni sociali che non avviene in modo indifferente allo spazio e al tempo in cui si dà. Occuparsene non significa assumere un punto di vista ecumenico, alla ricerca della consolazione di qualcosa che funziona nella città: nuove pratiche di cittadinanza, virtuose ri-territorializzazioni di uno spazio spesso inospitale. Ma provare a tracciare una mappa più aderente alla situazione contemporanea, adottare un punto di vista conoscitivo che si ritiene essenziale a orientare il progetto urbanistico e l'azione pubblica. Cristina Bianchetti
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