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Bene ha fatto l'editrice Archinto a proporre questa prima traduzione in italiano della conferenza che Sartre tenne nel 1946 all'Unesco, offrendo al lettore la possibilità di meditare sulla tensione utopistica,di irriducibilità ideologica e insieme di archeologica ingenuità delle parole del filosofo francese.Chiusa da appena un anno l'esperienza tragica della seconda guerra mondiale,della resistenza al nazismo,con la sua ansia di libertà e la candida esigenza di una nuova giustizia sociale, l'intellettualità occidentale faceva i conti sia con i suoi complici e vili silenzi,sia con rivoluzionari orizzonti di engagement futuro. Sartre appare consapevole,elettrizzato e quasi spaventato dalla responsabilità che lo scrittore del secondo novecento ha nei confronti della società,e soprattutto nei riguardi degli oppressi,in un'epoca in cui la comunicazione sta assumendo dimensioni prima sconosciute (quello che oggi definiamo "villaggio globale",lui lo chiamava più romanticamente "one world"..).E molto insiste sull'ambiguità dello scrittore postbellico,stritolato tra la sua provenienza borghese,il suo ruolo di disvelatore dei meccanismi di oppressione sociale e politica, il suo dovere di denunciare qualsiasi sopruso, violenza, negazione della libertà."Lo scrittore scrive perché,in un mondo in cui la libertà è costantemente minacciata,si assume il compito di ribadire l'affermazione della libertà". Dovere della letteratura è quindi quello di trasformare la realtà,facendosi parola ed espressione: "La letteratura trasporta un fatto immediato, irriflesso,forse ignorato,sul piano della riflessione e dello spirito oggettivo"; e ancora : "Opprimere i neri non era niente finché qualcuno non ha detto ' I neri sono oppressi'". La missione,il compito e la responsabilità che Sartre affida allo scrittore è quindi smisurata e gravosa,e oggi la sentiamo sperequata e illusoria rispetto al ruolo secondario che arte e letteratura rivestono in un mondo sempre più dominato dall'economia.
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