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recensione di Cavaglion, A., L'Indice 1988, n. 2
Dall'immensa produzione scientifica di Arnaldo Momigliano la curatrice del presente volume ha scelto alcuni scritti d'argomento ebraico composti fra il 1931 e il 1987 e ad essi ha aggiunto un meditato profilo di Momigliano storico del giudaismo. Sembrerebbe, a prima vista, un'idea del tutto ovvia. Chi non ricorda il fervore con cui Momigliano era solito parlare della sua fanciullezza, del nonno Amadio, che ogni sera, prima di dormire, leggeva al nipotino brani di mistica ebraica (lo Zohar)? Non è forse intitolato "A Piedmontese View of History of Ideas" uno dei saggi metodologici più famosi di Arnaldo Momigliano? Raccogliere sotto il medesimo titolo i contributi ebraici potrebbe sembrare un'idea scontata e invece non lo è. Talvolta le idee editoriali più ovvie sono le migliori, ma anche le più lente a maturare. Se, come si auspica, le "Pagine ebraiche" di Momigliano potranno avere la massima diffusione possibile ciò sarà senza dubbio un bene e non solo per la semplice ragione che metà dei saggi raccolti vedono adesso per la prima volta la luce in italiano. Risulterà finalmente chiaro a tutti che l'ebraismo non era soltanto uno fra i tanti interessi dello storico, del grecista, dello storico della storiografia. Era soprattutto il pathos della sua vita. A tal punto da rappresentare, osserva giustamente la Berti, "il filo di un'ipotetica autobiografia intellettuale". La breve premessa, dettata da un ospedale di Chicago, poche settimane prima di morire, ha il valore di un testamento spirituale: "La mia vera esperienza di religione ebraica è in questa intensa, austera, pietà domestica. I figli che sono benedetti dal padre il venerdì sera, la mamma che abbraccia marito e figli".
Non credo affatto che questo sia un libro per specialisti. E non è nemmeno un libro difficile da recensire. Per ritrovare il pensiero dell'autore non c'è bisogno di scavare negli scantinati delle note a piè di pagina (difficile, se mai, è districarsi nel virtuosismo delle vertiginose sue bibliografie). Dal 1931 in avanti Momigliano non si è mai stancato di battere sullo stesso chiodo e non ha mai cessato di chiedersi quale sia il posto del giudaismo nella società moderna: "se ci sia, e posto che ci sia, quale sia". Di qui deriva tutto il resto, comprese le simpatie (Giuda Maccabeo, Johanann ben Zaccai, Gershom Scholem) e le antipatie (Flavio Giuseppe, Filone, Hermann Cohen). Contrario ad ogni forma di ebraismo "snaturalizzante", Momigliano non dà soverchia importanza al fatto che tale snaturalizzazione sia avvenuta in età alessandrina o hegeliana. L'esclamazione "Filone non prevalse", che la Berti fa bene a mettere in risalto, per paradossale che possa sembrare, brilla per la sua antistoricità. Filone non deve prevalere nemmeno oggi. L'inizio della verità per un ebreo, scrive Momigliano a proposito di Scholem (ma è un motivo ricorrente in ogni sua pagina e funge da esortazione perché ognuno, ebreo o non ebreo, faccia bene il proprio mestiere), consiste nel riconoscere il proprio ebraismo di partenza, "imparare l'ebraico e trarre le conclusioni - quali che possano essere". Questo è il problema, spiega con sottile ironia (p. 202). Imparare l'ebraico e trarre le conclusioni - quali che possano essere. Se non lo si affronta di petto, tale problema rischia di condurci verso "un giudaismo appiattito, non falso e non triviale, ma retorico, generico e poco reale". Non triviale, ma retorico fu, per esempio, il giudaismo dell'apologetica antica, che si limitò ad esporre gli aspetti della vita ebraica che si presumeva potessero piacere ai non ebrei. Non falso, ma appiattito fu parimenti, nel secolo scorso, certo ebraismo tedesco, che pensava che il giudaismo potesse rispondere al pensiero di Kant, di Hegel e magari di Gesù, "come se in tal caso non fosse più semplice preferire Kant, Hegel, Gesù autentici alla copia conforme giudaica" (p. 70). L'esclusivismo, d'altra parte, non ha mai impedito l'acquisizione, conscia o inconscia, di idee straniere. Alla disamina di questa acquisizione e cessione di debiti e crediti fra Ebrei e Cristiani ("nella terra dove [hanno] convissuto dalle origini del cristianesimo, e anche prima") si può dire che Momigliano abbia dedicato l'intera sua vita. Tuttavia, ciò che viene prima è sempre la regola di Hillel ("Non separarti dalla tua comunità"). Tale regola è valida per il tardo I secolo a.C., quando fu per la prima volta formulata, come per il tardo XX secolo d.C., quando noi la ritroviamo trascritta in questo libro. Così di questo passo, si potrebbero fare infiniti altri esempi, sulla funzione delle profezie e dei Libri Sibillini. E ancora: per quale motivo Johanann ben Zaccai è da considerarsi una transfuga "migliore" di Flavio Giuseppe? Semplicemente perché, rifondando una comunità religiosa dopo la distruzione del Tempio, egli non si privò di quella "gioia nella Legge", di quella preoccupazione e amore per le giovani generazioni", che, invece, Flavio rifiutò.
l problema, dunque, è sempre uno solo. Non disimparare l'ebraico e trarre le conclusioni - quali che possano essere. Già, quali che possano essere. Ve ne possono essere anche altre, rispetto a quelle esposte da Momigliano? Quali? Azzardo un'ipotesi: il "superamento" della religione nella filosofia, teorizzato da Croce e da Gentile all'alba del nuovo secolo. Una teoria che, a suo tempo, riuscì quasi a convincere l'altro grande maestro di Arnaldo, il cugino socialista e mazziniano Felice Momigliano. Fu, tra l'altro, la scelta biografica di uomini come Alessandro D'Ancona, Tullo Massarani, Luigi Luzzatti. Qui si può giungere al nocciolo della questione. Con grande equilibrio la Berti mi sembra che nel suo saggio introduttivo abbia obbedito ad una delle principali "regole del gioco" care a Arnaldo Momigliano: porre domande intelligenti e cercare risposte soddisfacenti. Mi soffermerò principalmente su uno dei punti sollevati dalla Berti: il crocianesimo appunto, la "rivisitazione" dello storicismo compiuta da Momigliano nel secondo dopoguerra.
La Berti opportunamente riproduce e commenta le infelici uscite di Croce sulla natura dell'ebraismo (p. XVII), affermazioni tanto più infelici quanto intempestive, dato che furono pronunciate all'indomani delle persecuzioni (1947). Non vi è dubbio (ma fino ad oggi nessuno lo aveva chiarito con la stessa energia) che furono proprio quelle prese di posizione ad allontanare definitivamente Momigliano da Napoli e dall'idealismo. Furono la causa che determin• lo spostamento di interessi verso le nuove scienze sociali, in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Su questo non vi può essere più alcun motivo d'incertezza e vi sono esplicite testimonianze anche nel volume di cui ci stiamo occupando, nel saggio su Finley (per la psicoanalisi) e in quello su Strauss (per l'ermeneutica). Se la Berti però ha ragione quando riconduce quelle ingiuste affermazioni di Croce al clima da cui sorse il "Perché non possiamo non dirci cristiani" è anche vero che forse c'è qualche cosa d'altro, e di più, da dire, sulla precedente e più globale riflessione crociana intorno alla religione e alla filosofia.
Non vi è infatti alcuna ragione di dubitare che, nel Novecento, persino nella cerchia della famiglia Momigliano (dopo Felice, si pensi ad Attilio), la miglior gioventù ebraica "non poté non dirsi crociana". E va incluso anche Dante Lattes, che più d'ogni altro insorse nel 1947 contro Croce: non si può leggere oggi il commento alla Torah di Lattes senza notare subito le connessioni crociane. Fu, se si vuole, una forma d'inconscia osmosi, paragonabile, si direbbe, a quelle molteplici forme di osmosi (di "saggezza straniera") che proprio Momigliano ci ha insegnato conoscere e ci insegna ancora in questo suo postumo libro. Una "paideia crociana" verrebbe fatto di dire parafrasando io stesso Momigliano (p. 6l). Crociani non poterono non dirsi gli ebrei della Resistenza antifascista, evocati nel mirabile articolo sugli "Ebrei d'Italia", primo fra tutti Leone Ginzburg, che fu, come ebbe a scrivere Bobbio, "il più crociano" del gruppo torinese di "Giustizia e Libertà".
Che il bisogno storicistico di ricercare le origini dei nostri problemi storiografici all'interno della nostra mutevole collocazione entro la storia sia un tratto indelebilmente crociano della lezione di Momigliano non è chi non veda. È un tratto talmente indelebile che se ne scorgono ancora i segni nella premessa a queste "Pagine ebraiche". Che sia anche "l'unico" tratto crociano non saprei dire. Nell'imponente "storia della storiografia ebraica nei secoli XIX e XX", costituita dalla seconda metà del libro (saggi su: J. Bernays, M. Finley, W. Benjamin, G. Scholem, G. Bing, L. Strauss, E. Fraenkel, E. Bickermann) il peso della precedente "Storia della storiografia crociana" è ancora, a mio avviso, determinante. Si veda, per esempio, il frammento su Benjamin. La sistematicità che Momigliano riconosce a Scholem, e nega di fatto a Benjamin, quei severi giudizi su certo eclettismo benjaminiano (il compiaciuto gusto per l'introspezione, lo scarso approfondimento sia del marxismo sia dell'ebraismo) fanno venire in mente le pagine crociane sullo "sviamento" della storiografia liberale italiana dell'Ottocento. Nuovi sono gli strumenti adoperati da Momigliano, ma i criteri sono sempre quelli della compiutezza e della distinzione. Il che, beninteso, non nuoce, ma giova a rendere più seducente l'impasto fra tensione etico-civile crociana e humor anglosassone. Con grande beneficio per tutti, inutile nasconderlo in specie per la cultura italiana, da tempo avvezza a un culto spesso incondizionato e acritico per Benjamin.
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