(Bosisio, Como, 1729 - Milano 1799) poeta italiano.La vita. Le idee politiche e letterarie Di umili origini (il padre era un modesto commerciante di seta), studiò a Milano, dove, nel 1754, divenne sacerdote per poter fruire di una piccola rendita lasciatagli da una parente. Fu precettore per alcuni anni in casa di famiglie nobili (Serbelloni, fino al 1762, e poi Imbonati) e, ammesso già nel 1753 all’Accademia dei Trasformati, partecipò attivamente all’intensa vita intellettuale della Milano illuminista. Segnalatosi al conte Firmian, governatore di Milano, grazie al successo delle due prime parti del suo poemetto Il giorno (Il mattino, 1763; Il mezzogiorno, 1765), ottenne la direzione della «Gazzetta di Milano» (1768), poi, nel 1769, la cattedra di eloquenza alle Scuole palatine (trasformate nel 1773 in ginnasio di Brera), infine la sovrintendenza delle scuole pubbliche. Nel 1796, con l’arrivo dei francesi, fece parte per qualche tempo della municipalità democratica di Milano, ma restò disgustato dal comportamento dei rivoluzionari, e d’altronde venne presto privato di ogni incarico per le sue idee moderate. Il giorno stesso della sua morte, il 15 agosto 1799, compose un sonetto per il ritorno degli austriaci a Milano, non privo di ammonizioni.P. esordì come scrittore nel 1752, pubblicando sotto pseudonimo un volume di versi: Alcune poesie di Ripano Eupilino, rime di gusto arcadico, in cui è rilevabile la suggestione di moduli stilistici cinquecenteschi (F. Berni, i petrarchisti). Negli anni successivi venne accostandosi alle concezioni illuministe: nel Dialogo sopra la nobiltà (1757) affermava l’originaria uguaglianza tra gli uomini e condannava gli abusi della classe nobiliare, che a suo giudizio doveva recuperare la funzione di guida laboriosa della società civile. Chiariva intanto anche le proprie idee sulla letteratura e (seguendo gli orientamenti più diffusi dell’estetica settecentesca), tentava un nuovo accordo tra le esigenze illuministiche dell’«impegno» sociale e il rispetto del più classico rigore stilistico, tra la volontà di aderire ai più scottanti temi del presente e il desiderio di non rinnegare la dignità di un eloquio di lunga e gloriosa tradizione. Nel Discorso sopra la poesia (1761), rifacendosi al principio oraziano del «giovare dilettando», auspicava una poesia capace di eccitare alla virtù e al bene, senza però rinunciare alle esigenze di una forma controllata e musicalmente studiata. Come in sede ideologico-politica P. credeva che l’aristocrazia potesse (adeguandosi ai bisogni ormai improrogabili di una società in movimento) riformarsi e «guarire» senza annullarsi come classe, così, in sede di scrittura, giudicava che l’elegante patrimonio di forme ereditato dai secoli illustri dovesse essere non cancellato, bensì dilatato e arricchito mediante il confronto audace con la varia, e anche sgradevole, realtà sociale. Di questi anni sono anche due significativi scritti polemici: il primo (1756) contro A. Bandiera, che aveva sostenuto l’assoluta superiorità del toscano; il secondo (1760) contro O. Branda, che aveva denigrato il dialetto milanese, e a sostegno dell’uso del dialetto in poesia.Le «Odi» d’ispirazione sociale e illuministica Informate a tutte queste idee sono le sue prime Odi (ne scrisse in tutto 19, fra il 1757 e il 1795). Ciò che colpisce in esse è il superamento dei toni idillici e del decorativismo arcadico e la resa verbale, stilisticamente assai elaborata, di inedite dimensioni della vita collettiva (messe a fuoco dalla pubblicistica illuministica di carattere economico, giuridico ecc.). La prima di esse, La vita rustica (1757), è un’esaltazione dell’esistenza condotta tra i campi contrapposta alla corruzione cittadina, ma è soprattutto un modo nuovo (tipicamente illuministico, sensibile al «fare» e al progresso) di vedere la campagna, luogo di lavoro e non di mera contemplazione, oggetto naturale che l’uomo modifica e perfeziona con i propri strumenti e la propria accumulata esperienza. Così ne La salubrità dell’aria (1759), ode che auspica provvedimenti che garantiscano alla città un’atmosfera più igienica, si esprime una esigenza di pratiche migliorie che è eco coraggiosa dei dibattiti di un consorzio umano quanto mai vivo. Del 1765 sono altre due odi di ispirazione sociale: L’innesto del vaiuolo, in cui si sostiene la necessità di divulgare l’uso della vaccinazione, e Il bisogno, in cui si auspica l’abolizione della tortura e si individua nella povertà l’origine prima della criminalità. Del 1769 è La musica, ode polemica contro il crudele uso di evirare i fanciulli per farne dei cantanti sopranisti. Tutte queste composizioni (e si potrà citare ancora La impostura, 1761, e La educazione, 1764) ci rivelano un intellettuale attento al concreto, il cantore di una sanità che è anche compiutezza umana, fervore di attività utili, fiducia nell’incivilimento, capacità di ascoltare le voci di una mobile comunità.«Il giorno» e le «Odi» neoclassiche Intanto P. aveva iniziato la composizione del Giorno, poema satirico in endecasillabi sciolti le cui prime due parti, Il mattino e Il mezzogiorno, come si è detto, furono pubblicate nel 1763 e nel 1765; continuò in seguito a rifinirle e compose Il vespro, lasciando incompiuta La notte (le due parti furono pubblicate postume nel 1801).Nel Mattino e nel Mezzogiorno il poeta (che immagina di essere precettore di un giovane aristocratico) disegna una serie di densi quadri della vita fastosa e fatua dei nobili, fra lezioni di ballo e incipriature, fra i riti dell’abbigliarsi e i pranzi, fra le visite mondane e le passeggiate in carrozza. P. contempla con sdegno o ironia i salotti eleganti, il lusso e gli agi, e pronuncia una condanna recisa di quanti indegnamente fruiscono di quel benessere. Le convinzioni egualitarie lo indirizzano verso una critica di questo mondo ozioso, una critica non tanto politica quanto morale: egli si augura, in fondo, che l’aristocrazia si faccia (o meglio ritorni) degna dei privilegi di cui gode, vincendo la propria infingardaggine e dissipazione e assumendosi un fattivo ruolo sociale. Di contro, il «volgo» si pone come possibile modello di operosità, castigatezza e virtù familiari.Le due ultime parti del Giorno riflettono però le perplessità e le delusioni dell’autore: si era ormai chiuso il periodo di più intenso slancio dell’illuminismo lombardo, quando era sembrato che gli intellettuali potessero contribuire attivamente a una politica di riforme. La vena polemica di P. si attenua ed egli accede a una poetica neoclassica, acquisendo un distacco dalla propria materia che ad alcuni è parso involuzione ideologica, ad altri, superiore rasserenamento. Certo la sua attenzione muove verso l’interiorità, verso i moti nascosti della psiche: su questa strada egli coglie dall’interno lo sfacelo di un intero ceto, ormai prigioniero di assurde manie di grandezza, di torbide fissazioni, di meccanici gesti.Anche nelle odi più tarde, al discorso civile si vengono sostituendo differenti contenuti, affetti e toni. Il pericolo (1787) e Il dono (1790) si ispirano alla bellezza femminile, ora inquietante ora serenatrice, ma tenendosi su un tono di galanteria e di squisito omaggio mondano. Il messaggio (1793) ha accenti più nostalgici, soprattutto dove il poeta, ormai vecchio, viene affermando, attraverso la contemplazione della bellezza della donna, la superiorità dell’amore sul regno della morte. A Silvia (o Sul vestire alla ghigliottina, 1795) è anche un’ode di ammaestramento nella quale P. ci dice quanto sia necessaria in una donna la virtù della decenza (delineando una cupa immagine della decadenza dei costumi nella tarda società romana), quanto licenza e crudeltà si alimentino a vicenda. È presente in tutto il componimento una angosciata percezione della violenta età contemporanea, segnata dal Terrore e anche dallo sconvolgimento di tante abitudini. L’ultima ode composta da P., Alla Musa (1795), è la celebrazione della poesia, vista come educatrice dell’uomo al culto delle cose nobili e buone, come sua luminosa consolatrice, come altissima forma di moralità.Lo stile e la fortuna critica L’originalità dello stile pariniano nasce dall’incontro fra temi spesso dimessi e «vili», o situazioni riprovevoli e meschine, e un linguaggio di estrazione illustre, talora magniloquente: il risultato è l’ironia, oppure la nobilitazione del quotidiano, e sempre il rinsanguamento di una materia verbale un po’ abusata, in un difficile, inedito equilibrio fra diversi registri stilistici. Nutrito di esempi latini, il giro delle frasi è lontano da ogni facile cadenza musicale di timbro metastasiano: non il suono, infatti, ma le idee e gli oggetti premono a P., che si pone così come esemplare rappresentante di una nuova letteratura non evasiva, e inaugura un modo nuovo di far poesia che avrà gran peso nel corso del risorgimento.Di grande risonanza fu l’opera di P. presso i contemporanei, che espressero ora riserve (P. Verri) ora consensi (C. Gozzi, G. Baretti). In età romantica, venuta meno l’adesione ai moduli del suo dettato poetico, ci si soffermò piuttosto sul valore morale della sua figura umana: atteggiamento culminato nel giudizio di F. De Sanctis, secondo il quale in P. l’uomo vale più dell’artista. Nel nostro secolo si è tornati a insistere sugli aspetti letterari della sua attività, ora considerandolo come il massimo esponente dell’Arcadia (B. Croce, M. Fubini), ora illustrando gli svolgimenti della sua opera, da una iniziale adesione agli schemi arcadici fino agli esiti finali di tipo neoclassico (D. Petrini, W. Binni, N. Sapegno), ora sottolineando le consonanze formali della sua poesia con l’estetica del sensismo (R. Spongano) e quelle ideologiche con l’illuminismo (G. Petronio). Grande attenzione è stata dedicata, di recente, alla storia della composizione del Giorno, inteso come opera in fieri (L. Caretti, R. Amaturo, D. Isella).