(Verona 1753-1828) poeta italiano. Ricevuta una rigida educazione classicistica alle scuole di Modena e di Verona, nel 1779 si recò a Roma e fu accolto in Arcadia col nome di Polidete Melpomenio; di lì raggiunse Napoli, la Sicilia e Malta. Trascorse poi alcuni anni nella quieta villa di Avesa (presso Verona), finché, tra il 1788 e il 1790, compì un lungo viaggio all’estero, sostando per qualche tempo a Parigi (dove conobbe V. Alfieri e si entusiasmò per le idee rivoluzionarie) e in Inghilterra. Tornato in Italia, si dedicò agli studi e assistette indifferente ai trionfi di Napoleone; nel 1796 le truppe francesi danneggiarono gravemente la sua casa di Avesa, sicché fu costretto a dimorare ora a Verona ora a Venezia.Dopo alcune versioni dai classici e da Racine (Berenice, 1774), P. esordì in teatro con la mediocre tragedia Ulisse (1777). Ma con il poemetto La fata morgana (1782) e con i Versi di Polidete Melpomenio (1784) si rivelò poeta originale, dalla tenue vena malinconica e musicale, incline a tonalità preromantiche, mutuate dalla poesia notturna e sepolcrale di Th. Gray e S. Gessner, e calate in una nitida figuratività neoclassica. La sintesi fra le due tendenze fu raggiunta nelle Prose e poesie campestri scritte fra il 1784 e il 1788 (le poesie furono pubblicate nel 1788, le prose molto più tardi, nel 1817), dove, sullo sfondo di un paesaggio georgico dai colori vividi e netti, s’accampano i «piaceri eruditi e tranquilli» e il mito-sentimento della «melanconia», la «ninfa gentile» invocata in una delle più celebri liriche pindemontiane. Successivamente, il felice connubio tra lucidità del dettato e tenerezza dell’ispirazione sembrò scindersi a poco a poco in un duplice esercizio poetico, condotto su registri paralleli e influenzato dagli esempi diversamente suggestivi di V. Monti e di U. Foscolo. La ricerca di eleganza neoclassica si accentuò fino alla frigidità nelle Epistole (1805) e nei Sermoni (1819); la vena preromantica si complicò, invece, di ulteriori elementi nordici nella tragedia bardita Arminio (1804), nell’incompiuto poemetto I cimiteri (1806) e nell’epistola a Foscolo sui Sepolcri (1807), dove il culto della tomba è celebrato con ragioni soltanto private e affettive, lontane dall’impegno storico-civile che anima l’omonimo carme foscoliano. Della limpida immaginazione che aveva illuminato le Prose e poesie campestri resta semmai qualche traccia nella dissertazione Su i giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia (1817), documento esemplare del gusto tardosettecentesco per la natura disciplinata dalla mano esperta dell’uomo; mentre la pur celebre versione dell’Odissea (terminata nel 1815, ma pubblicata nel 1822) mostra una sostanziale dissonanza col mondo omerico: l’irruenza e il grande respiro dell’epos vi sono ingentiliti (talora fino alla leziosaggine) e accenti efficaci traspaiono soltanto là dove più scoperto e vivo è il sentimento della casa e dell’amor coniugale.